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La poesia in azione



Nell’anno 2008 partecipo al festival di poesia contemporanea “Ex-poesia” di Bilbao (Paesi Baschi, Spagna) e da quel momento il mio senso della poesia muta radicalmente. Ma non sto qui a raccontarvi i fatti miei, che interessano solo me, piuttosto vorrei parlarvi della questione artistica della poesia, della sua vitalità e della sua contemporaneità.


Quando nel 2008 sono stato chiamato da Fausto Grossi, curatore del festival, a intervenire con una “poesia in accion”, mi sono sentito veramente sprovveduto. Tuttavia, ispirandomi all’aria di quella potentissima kermesse, ho dato luogo a una performance del tipo o la va o la spacca. Dopo quel momento, quando sono tornato a Roma ho deciso di diventare ciò che sono ancora oggi: Poetainazione. Quel pomeriggio ho inventato un’azione tra la carta e lo spazio, tra me e i presenti, organizzando un tavolo bianco e una camicia bianca su cui il poeta si offre intimamente, come nudo, nell’atto della creazione. Ho cominciato a scrivere, davanti a circa duecento persone sedute, anch’io seduto (a quel tavolo bianco preso in prestito) e lasciandomi trasportare dalla mia creatività. Ho gettato sulla carta qualche verso, qualche altro l’avevo già pronto in tasca, e infine ho concluso quella performance silenziosissima con una breve lettura, alla maniera antica ma comunque nuova per me. Questa esperienza mi ha reso felice, poiché il silenzio della creazione è un fatto inaudito, e almeno quello credo di averlo reso com’è nella sua verità. Quando sono tornato a Roma ho rifatto una cosa simile in mezzo alla stazione Termini, finché dei carabinieri non mi hanno cacciato.


Nell’ottica della poesia in azione, che è pura vita, non esiste un pubblico ma un destinatario vivo. E perciò non esiste nemmeno un poeta passivo, morto lettore di versi. Il poeta in azione è una bestia strana, difficile da definirsi, ma alcuni tratti peculiari lo distinguono dal poeta tradizionale. Ci sono poeti che restano chiusi in casa, altri che stanno solo sui libri e altri che compiono reading (inclusi i poetry slam), mentre il poeta in azione agisce nello spazio (del mondo, spazio come dimensione collettiva), brucia il tempo (anch’esso nel senso “basso” e alla portata), conduce un messaggio non egocentrico e non narcisista, dato che ogni volta è sempre un po’ buffo, e sempre incastrato nello spazio fisico e nel tempo fisico (non mira all’eternità, alla gloria, che semmai sono appannaggio del poeta libresco). Il narcisismo degli altri non viene mai sopraffatto o urtato da un poeta a livello degli altri, e “della strada”, per così dire. Il poeta in azione è infatti cugino dei clown, dei saltimbanchi, dei pierrot, anche quando urla e incendia sedie come Ramon Churruca. Come i suoi cugini lamentosi e beffardi, il porta in azione muove da una pena triste, che con rabbia sublimata porta a livello di poesia. Il mio primo contatto con questo misto di dolore, rabbia e amore, con questo misto di camicia bianca, tavolo prestato, infrazione dello spazio medio e del tempo ordinario… che chiamiamo poesia in accion è Fausto Grossi.

Fausto Grossi è riconosciuto in Spagna come una figura di primo livello nell’ambito di questa particolare performance fuori dagli schemi, provocatoria, beffarda, ruggente, la quale fa pensare all'”happening”di Allan Kaprow ( U.S.A., anni ’60) e al movimento “situazionista” della metà del ‘900, ma anche al dadaismo e al surrealismo. La poesia in azione non è tuttavia una riproposizione di questi movimenti né della vecchia scuola spagnola surrealista (Bunuel), ma è un fatto dei tempi correnti ed ha una sua propria specificità e novità. E talmente sono forti e unici queste sue qualità che anche per un primitivo italiano come me non è stato difficile percepirne la potenza.

Il poeta in azione non è solo un situazionista e un happener, né tantomeno un qualsiasi performer, come si dice alla maniera comune ma riduttiva. Infatti, lo stesso Fausto Grossi quando usa la parola performer stenta a pronunciarla. Là dove la performance di poesia in accion è reale e concreta, come essa è per definizione, non è tuttavia soltanto sul piano rappresentativo o prestativo, pratico e immediato che essa si consuma. Questo tipo di performance può essere infatti completamente ideale o teorica, tanto che l’azione stessa è idea. Il poeta in azione non ha necessariamente bisogno della poesia tradizionale, che è scritta, letta o imparata a memoria, o anche improvvisata (come nella “poesia d’improvviso” del 1700), ma può anche fare a meno dei versi per svolgere direttamente l’idea poetica che presiede la poesia, il senso che la muove, sia pure la stessa mancanza di senso. Fausto Grossi generalmente non scrive poesia e non pensa in poesia, ma pensa in poesia in azione. A volte quest’ultima è pura arte, come abbiamo visto poco fa, altre volte è una cosa impura, un concetto appena pronunciato e avvolto ancora nella sua oscurità limbica, aurorale; oppure è un fatto molto complesso, che esige l’ausilio di molti mezzi o porta alla luce molti problemi; o un messaggio secco e semplicissimo, come un gesto. La poesia in azione è idea o intuizione o emozione che agisce e questa azione reclama un momento pubblico. L’improvvisazione può fare naturalmente parte di questo momento, così come l’interazione con l’ambiente né fa sicuramente parte, ma l’affermazione e la rivendicazione di un fatto d’arte è elemento fondamentale e costante. Il poeta in azione spagnolo così pensato, cioè alla maniera di Fausto Grossi, Ramon Churruca, Fundacion Rodriguez e altri che ho potuto ammirare dal vivo coi miei occhi, è quindi un poeta che in ogni caso, sia parli in poesia sia taccia nel silenzio più assoluto o emetta versi strani, è l’arte stessa come spazio, moto e messaggio rivendicato in un arco di tempo (performance) solitamente indefinito e spinto al di là di sé, nello spazio e nel moto e nella percezione del mondo in cui esso casualmente cade. La casualità è anch’essa inclusa, e fa parte del coraggio del poeta. In questo senso il poeta in azione incarna sempre uno spazio e un tempo non ordinari, che egli rende assurdi e casuali con la sua forza, anche quando l’azione sembra non avere alcuna forza o consumarsi in dieci secondi. In questo c’è sicuramente un retaggio proveniente dall’happening americano, che è forse un saltimbanchismo fattosi più cosciente e critico. Ritorniamo dunque alle parentele di questo poeta con gli artisti di strada e le strane bestie che si danno nell’arte di strada.

Per me che sono figlio di una Italia culturalmente priva di azione e anzi devota alla stasi, e tanto vecchia da nutrire solo precoci reumatismi e “calmi deliri di Alzheimer”, Ex-poesia è stata un’esperienza culturale impressionante. Mi piacerebbe quindi mostrarvi delle poesie in accion ma è impossibile reperirne, e ciò è veramente coerente con la filosofia di non lasciare traccia, bruciando nell’arttimo dell’azione e basta, in un tempo che non vuole essere eterno. E proprio per obbedire a questa regola non scritta dei poeti in azione non allegherò a questo post alcun filmato, eppure ne avrei. Dico solo che nella kermesse di Castel S.Angelo a Roma, durante l’estate romana del 2009, la mia poesia in azione ha inchiodato per dieci minuti oltre 200 persone che passavano tra gli stand. In quell’occasione, che era fatta più per il divertimento che per il dolore, ho proiettato su un telo un’amalgama di immagini tratte dalla penosissima ed edonistica Tv italiana e ho costretto alcuni passanti a un particolare sacrificio: ho impostando sui loro corpi con le mie mani una poesia orrenda e pornografica letta e argomentata…sui loro corpi. Dovevano provare, in corpore vili, cosa significa la TELEVISIONE italiana.

Fausto Grossi è attivo in tutto il mondo, dall’Argentina alla Cina all’Italia. E’ stato a Venezia per agire sul tema dell’acqua alta, ed è stato anche a Roma nei panni di un clown che porgeva ai passanti una spilla-distintivo con su scritto I’am a clown. In questa occasione Fausto ha rischiato di essere arrestato, dato che lo spazio cittadino su cui aveva scelto di agire era il Parlamento italiano e strade adicenti.



Ex-poesia mi ha dimostrato che la modernità dell’arte non è legata alla tecnologia, ma allo spirito degli artisti, che se sono grandi è lo stesso spirito dei tempi che parla tramite loro. E non è detto che, pur nel tempo della tecnologia e della tecnocrazia, ovvero della enorme Propaganda che la tecnologia riceve, lo spirito dei tempi sia necessariamente questa disumanizzante produzione propagandata!

Ex-poesia, pur nella piccola e serena Bilbao, poneva di colpo una pietra sopra la mia vecchia Italia di poeti morti o boccheggianti. Roma, Milano, Torino, Bologna, Napoli, Firenze, Palermo e ogni altra città che alla poesia dedica qualche cosa sfumava di colpo.

A Roma l’ultima forma di poesia contemporanea è morta alla fine degli anni ’70 con il reading di Castelporziano. Lo stesso Dario Bellezza morirà definitivamente sui divanetti del Maurizio Costanzo Show, là dove poi moriranno anche Carmelo Bene, Alda Merini e altri. Singolare è pensare che nello stesso tempo in cui a Bilbao si teneva Ex-poesia Nanni Balestrini esponeva al MACRO le sue sillabazioni visive prive di azione, mortuarie come i busti risorgimentali del Gianicolo. Tra il poeta milanese, il più contemporaneo del momento? , e i “poeti in azione” spagnoli non c’è paragone!

Andiamo quindi a Milano, dato che l’abbiamo nominata. A Milano la poesia non è più di casa, mentre lo è stata per secoli, grazie ai poeti come Carlo Porta ma soprattutto a chi lo ha pubblicato. Le numerose e rinomatissime case editrici milanesi non organizzano più niente di vivo sulla poesia ormai da decenni, al contrario cercano di ucciderla, trattandola con il peggiore disprezzo. A via Falck Crocetti Editore seleziona la poesia nell’ufficio marketing, poco più in là Garzanti SPA (la casa editrice di Pier Paolo Pasolini!!!) ripubblica gli stessi classici da venti anni e “non è interessata a pubblicare gli esordienti” (me lo dice al telefono nell’anno 1995). Mondadori non è più Arnoldo ma la famiglia Berlusconi, e se prendiamo ad esempio quella bellissima e antichissima libreria di legno scuro che essa ha nel cuore di Milano non potrò più dimenticare quell’immagine che mi si è parata davanti agli occhi nell’anno 2005: il libro Le barzellette di Totti s’imponeva come una torre di centinaia di volumi accatastati all’entrata. Mi ricordo che cercavo Pasolini e quando l’ho trovato era sepolto in uno scaffale bassissimo, irraggiungibile, nell’ombra. Io cerco sempre Pasolini, ovunque vado. E cerco sempre, in ogni libreria in cui entro, lo scaffale della poesia. Lo scaffale della poesia dice tutto sulla libreria in cui ci troviamo e sulle idee del suo libraio.

Ma torniamo alla poesia in azione spagnola e alla vitalità della nostra poesia contemporanea. Oh, scusate il pleonasma, ovviamente non c’è contemporaneità senza vitalità.

A Torino il vasto Salone del libro non competerà mai con la rivoluzionaria Ex-poesia di Euskadi, e neanche Napoli con la sua cultura, le sue riviste (vedi L’Isola http://www.lisolaweb.com/omaggio-a-roberto-gianani/ ). E se è naturale per le piccole riviste come per le piccole case editrici italiane dedicarsi ancora un po’ ai poeti, come faceva la rivista Ricerca di strano di Roma, ormai morta, oppure la bellissima rivista fiorentina Mostro ( http://www.inventati.org/mostro/15_MostroAutunno2004.pdf ), anch’essa morta nel 2005, è invece una vera e propria forzatura, una tortura, per le grandi case editrici stampare qualche poeta nuovo, seppure a pagamento. E pure se lo stampano in mille copie, certo non lo distribuiscono. Ma sul tema delle case editrici tornerò più avanti in un post specifico, data l’importanza dell’argomento.

Al momento posso solo osservare che Controcorrente edizioni (Napoli) e Stampa Alternativa (Viterbo), pur professandosi diverse dalle grandi, non danno alla poesia niente che non sia la solita estrema unzione. Perciò sono convinto che questi e altri editori come loro, di cui percepisco la sensibilità oltre il business e il clan delle major, potrebbero fare molto di più, e vogliono farlo!. Invito loro e qualsiasi altro editore antifeltrinellesco e antimondadoriano a discutere – sia in questo che fuori da questo blog – l’idea di un festival di Ex-poesia italiana da far tremare certi papponi dell’industria libraria. A questo proposito, e chiudo qui la parentesi, vedo già un festival di poeti che non balbettano più, né promuovono i loro business in tv come Elio Pecora, ma finalmente sputano in faccia a questa cultura italiana avidamente parassita o salottieramente sbadigliante, schiffeggiano la mediocrità e l’arroganza, ne indicano i responsabili, anche partendo da se stessi. I poeti sono come i preti, sono sempre i primi responsabili. Ma i poeti italiani devono capire chi sono e quale ruolo hanno. Devono esercitare tutto il loro potere di fantasmi e uscire dalle soffitte, contro chi li vuole zitti e insignificanti come sono ora. Le Maraini, le Spaziani, i Paris, i Zeichen e altri morti come loro devono uscire dal silenzio complice, devono aleggiare nel Paese e molestralo dalla coscienza fin nel più profondo inconscio dell’italiano medio, anche a rischio di morire fisicamente – che almeno è una morte con onore!. Devono smettere di cercare gloria coi libri, devono cessare il falso status aristocratico di cui si ammantano, per ottenere una possibilità di vita per sé e per tutti, perché se i poeti ricominceranno a cantare, allora anche gli altri canteranno. Tutti capiranno un giorno che la prima morte di un popolo è la morte della sua poesia. Ma su questo punto sarò più ampio nel post dedicato.



A Bologna l’Università ha creato un laboratorio di poesia contemporanea (sic) e usa la formula piuttosto vecchia e ormai burocratica del reading. L’UNIBO ha anche aperto le porte del proprio laboratorio poetico alla figura televisiva e dunque antipoetica corrispondente al famoso nome Morgan. Ma a che scopo questo evento con al centro il guitto televisivo? Io glielo ho chiesto, ovviamente, ma non mi hanno risposto. Forse perché Morgan passa per essere un contemporaneo e un poeta? Io ci vedo la solita mistificazione: l’idea falsa di voler far dialogare la televisione, e cioè la realtà, con la poesia. Il risultato è però quello di umiliare non tanto i veri poeti, che sono immuni da certe manovrine e restano puri come ragazzi del Bangladesh, quanto i poveri avventori di certe iniziative, che non sanno niente della “realtà della poesia” e conoscono ormai quasi solo la “realtà della televisione”.

Che la poesia esca dalla carta-camera-casa per diventare finalmente parte del Paese sarebbe il passo più rivoluzionario e utile che si potrebbe farle compiere, ed è questo che in un buona misura avviene nel festival di Bilbao, benché tra le quattro mura dell’edificio. I poeti in azione proteggono l’umanità presente da quella forma di morte che colpisce chi non partecipa ma assiste e vive per delega, come avviene peculiarmente nel nostro Paese ma non di meno negli altri europei in questo tempo sempre meno umano, dominato dalla Tv, dalla tecnica, dalla politica autonominata, dai club bilderberg che operano dietro le nostre spalle, etc.

Me la ricordo bene la partecipazione della gente che è stata agita dalla poesia in azione!

In Italia l’Università potrebbe dare ai poeti una complicità reale, che renderebbe reali entrambi i complici.

L’UNIBO di Bologna non ha questo obiettivo, perché crede di avere già una propria dignità reale. Ma essa, o è in malafede o non sa quanto abbia bisogno cultura viva e circolante all’esterno di sé. Tanto che si potrebbe anche affermare l’inverso: e cioè che non è il poeta ad aver bisogno dell’Università, ossia di un gesto da parte dello Stato, quanto lo Stato ad aver bisogno dei poeti. E ne ha bisogno proprio per togliere di mezzo i Morgan.

Del resto l’Università stessa, senza poeti, cos’è?

Garcia Lorca tenne lezioni all’università di New York, ma anche Calvino, proprio là dove Brodskij oggi ha una cattedra in letteratura russa.

L’UNIBO questo non lo ha capito ma forse un giorno lo capirà, quando i poeti usciranno con forza dalle soffitte ammuffite.

Sempre a Bologna abbiamo anche il movimento dei “100.000 poets for change”,il cui referente è Pina Piccolo, poeta, storica della poesia e militante della poesia , come direbbe Giorgio Manacorda, anch’esso morto come un poeta italiano qualunque ( D’altronde anche Giorgio Manacorda è un poeta, inserito ne l’Io che brucia, egli teneva un Annuario della poesia italiana che era una delizia, prima di andarsene in soffitta di sua sponte). I 100.000 poets for change sono un movimento creatosi nel 2011 su iniziativa di alcuni poeti e professori della Stanford University (Michael Rothenberg e Terri Carrion), ma a differenza dei loro colleghi universitari bolognesi questi poeti, critici militanti e professori della poesia credono nella possibilità che la poesia possa procurare cambiamenti sociali radicali ( http://100tpc.org/ ).

In Italia il movimento dei 100.000 poets for change-Bologna ha prodotto varie iniziative, tra cui il libro Sotto il cielo di Lampedusa annegati per respingimento (anno 2014). A questa antologia di circa 200 poeti anche il sottoscritto ha avuto l’onore di partecipare.

Ma se le case editrici soffocano i poeti, come succede ormai da molti anni, e nemmeno l’Unversità italiana riconosce loro un ruolo sociale, anzi dove è possibile lo confonde con la televisione (vedi sopra), figuriamoci come si comporta a questo riguardo la scuola dell’obbligo!

La scuola dell’obbligo italiana, e penso alle migliaia di istituti delle medie e dei licei, potrebbe avviare una vera e profondissima rivoluzione in questo senso. Il rapporto tra il soggetto della poesia (il ricevente), in questo caso il ragazzo italiano, e la poesia, si forma proprio per grazia della scuola media e superiore. Il Paese intero muterebbe in poco tempo e radicalmente, se questo rapporto mutasse radicalmente. Nel giro di una o due generazioni la cultura viva e circolante che richiamavo prima sarebbe un fatto reale e stupendo. La poesia entrerebbe a far parte della collettività e del senso civile, di cui sarebbe un elemento vivo.

Ma vediamo un esempio di alunno che riceve la poesia oggi nella scuola italiana. In terza media gli si chiede di imparare a memoria una delle poesie più brutte e meno riuscite di Giacomo Leopardi: Alla luna.

XIV – ALLA LUNA

O graziosa luna, io mi rammento Che, or volge l’anno, sovra questo colle Io venia pien d’angoscia a rimirarti: E tu pendevi allor su quella selva Siccome or fai, che tutta la rischiari. Ma nebuloso e tremulo dal pianto Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci Il tuo volto apparia, che travagliosa Era mia vita: ed è, né cangia stile, O mia diletta luna. E pur mi giova La ricordanza, e il noverar l’etate Del mio dolore. Oh come grato occorre Nel tempo giovanil, quando ancor lungo La speme e breve ha la memoria il corso, Il rimembrar delle passate cose, Ancor che triste, e che l’affanno duri!

Chi legge Alla luna sente che il linguaggio usato puzza di vecchio, che il verso invece di scorrere è pieno di intoppi come certi incisi inutili o troppo lunghi (né cangia stile; or volge l’anno; quando ancor lungo…), fino a quel capitombolo finale: l’ultimo inciso, lungo quasi due versi, che ci fa perdere il filo, e quell’epilogo tanto scritto male che proprio non ha senso: “ancor che triste, e che l’affanno duri!” Quale affanno? Ma il soggetto non era “il rimembrar delle cose”? Qui Leopardi commette un errore, ma la mestra lo rende diabolico facendolo perseverare nei secoli. Ecco dunque che questo finale, sebbene errato, deve essere imparato a memoria da migliaia di bambini, forse milioni, tra cui anche mio nipote Romolo che ha tredici anni d’età e che proprio non riesce a memorizzarlo. Il risultato vero è che un poeta può sbagliare, ma lo Stato italiano sbaglia ancora di più se costringe i propri ragazzi al disgusto per la poesia.

Abbiamo visto un palese caso di morte della poesia prima ancora che essa possa nascere nell’animo umano. Ma questo in Italia è un disastro comune tra tanti disastri simili, dato che D’annunzio e Carducci non sono letture meno errate sul piano del disgusto. Ed è un delitto fenomenale, se consideriamo che il popolo italiano ha più che mai bisogno di poesia, ma di poesia non vissuta con dogmatico rispetto bensì fresca, viva e comprensibile nella vita dei giovani italiani. Vi sono poeti freschissimi e anche divertentissimi come Raffaello Baldini (vedi la raccolta Intercity), oppure abbiamo il Pasolini di “Non caca ma babandogo” (raccolta Trasumanar e organizzar),e Ginsberg, Majakovskij, se vogliamo stare nella grande poesia mantenendoci però su un piano autodesublimante, beffardo, allegro.

I poeti che scendono dalle soffitte dovrebbero innanzitutto chiedere allo Stato italiano di rivedere i programmi di studio. Se fosse per me io farei volare i ragazzi. Li farei volare come uccellini, quali sono, facendogli beccare un pochino Dante, che ci vuole, ma allo stesso tempo comparandolo con Ezra Pound, che è un Dante moderno. Poi li farei volare sul grande Rimbaud, ragazzino anche lui, e sul surrealismo francese (Eluad, Breton, Apollinaire…), che è molto più intenso e vitale del nostro malinconico e depressivo surrealismo alla Palazzeschi e Gozzano. I nostri ragazzi li terrei lontano da D’annunzio, Marinetti e Carducci, e comunque opporrei al primo Dino Campana (il quale ci sorriderebbe dalla tomba!), al secondo Majakovskij e al terzo non la barbarie ma la dolcezza (Verlaine, Prevert…). E poi li farei volare, ma facendogli anche fare il nido, sulla forza della poesia del dopoguerra in Italia. Una stagione unica nel mondo! Si nutrirebbero di Ungaretti, del primo Montale, dell’ultimo Sereni, dell’ultimo Montale, di Saba, Rebora, Caproni, i dei tanti dialettali pieni di gioia di vivere che abbiamo avuto. E ovviamente tra questi avrebbe un posto d’onore Pier Paolo Pasolini, il nostro più grande rivoluzionario poetico, il nostro Rimbaud. Ma in generale li farei migrare velocemente dal passato verso l’oggi, dato che il passato è passato da troppo tempo ormai, visti i salti culturali fatti solo nell’ultimo ventennio mediante internet, il video, etc. E poi l’ultimo nido – ma che sia pur sempre una casetta temporanea, l’appoggio per una migrazione continua – glielo farei costruire a piombo sulla poesia in azione. Per un’esperienza potente invece che schifosa, proprio come all’Expoesia di Bilbao.





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Omaggio alla beat generation verso una rivoluzione tutta italiana

Pier Paolo Pasolini è mio padre. Ma Allen Ginsberg è mio zio. Io sono convinto, ma questa è solo una mia congettura, che quando mio padre ha conosciuto mio zio, suo fratello, questa conoscenza abbia impresso alla sua poesia un cambio quasi totale. Ovviamente non sono qui ad analizzare mio padre, cosa che per molte ragioni non si deve mai fare, ma sicuramente nella sua ultima raccolta, Trasumanar e Organizzar, egli mutua dai poeti americani e soprattutto da Allen Ginsberg (la raccolta Urlo è del ’56) un modo di essere evidentemente molto più sciolto rispetto a prima, cioè al Pasolini degli anni ’50 (pensiamo ad esempio a Il canto popolare). Il “più moderno di ogni moderno”supera dunque il suo pur progressivo ma vecchio sapere mentale e letterario (diventato più che stantio negli anni ’60, con punte anche retoriche e moralistiche) per sposare un sapere e dunque un essere e uno stile in buona misura affratellato ai poeti beat. Il nostro essere moderni ci impone sempre una continua trasformazione, ma la modernità dei poeti beat, per un italiano vivente in Italia, si configurava sicuramente come una specie di ristrutturazione mentale. Tuttavia, per un uomo colto e moderno, la sola vera trasformazione possibile era quella, dato che la neoavanguardia italiana del “Gruppo ’63” non era nulla in confronto al movimento della beat generation coi suoi poeti realisti, coi suoi musicisti impegnati, un po’ come non fu nulla il marinettismo (che io smetterei di chiamare “futurismo”) rispetto al futurismo russo e alla modernità di un Majakovskij o di un seppur ignoto Chlebnikov. Del resto Marinetti non ha inciso minimamente nella storia della lettaratura e della modernità dell’Uomo e se viene ricordato nei libri è soltanto perché gli storici sono fascisti anche quando non lo sono (qualunquismo), come tutti coloro che in Italia rivestono un qualche ruolo riconosciuto. Come racconta Roman Jakobson nel suo libro Una generazione che ha dissipato i suoi poeti, Vladimir Vladimirovic Majakovskij e gli altri futuristi russi si rifiutarono di ricevere alla stazione il nostro futurista, vate degli atteggiamenti più stupidi e retorici tra cui “la guerra come repulisti del mondo”. Una mattina di due anni fa nella casa di Pina Piccolo ad Imola, in una appassionata quanto oziosa chiacchierata di circa due ore che non scorderò mai, il grande romanziere e saggista brasiliano Julio Monteiro Martins mi contestò questo amore “beat” (da cui nasce, per fare un esempio chiaro, la mia videopoesia Alle nostre care facce di merda…- fruibile in questo blog). “La beat non esiste più, inutile accanirsi, la poesia, invece, esisterà sempre” diceva il grande romanziere consumando la sua colazione di panini al formaggio e salami. Ma mentre la pioggia scendeva fitta e seria su Imola e il nostro Martins era al quinto sandwich, io gli obiettavo con veemenza e amarezza tutto il mio scetticismo sostenendo che la poesia era già morta, o comunque era diventata roba da fantasmi e che solo una rinascita della poesia beat (in realtà mai nata in Italia) poteva forse, dico forse, rappresentare un estremo atto di vita poetico, anche fosse solo per via di una respirazione bocca a bocca. Ma per quanto potevo essere realista, da poeta non avrei mai potuto scrivere il necrologio della poesia, proprio come il seppellimento dell’agricoltura non dovrebbe mai venire per mano del contadino – lo dico mentre penso a un video sulla vendita di terre romene ad aziende straniere, dove un contadino romeno recita sulla simbolica bara dell’agricoltura ( vedi in questo blog il post Salviamo la Romania).

Se Martins aveva torto ed io ragione non potremo forse mai scoprirlo, tuttavia, contro la morte della poesia io persevero nella mia strada e con la poesia in azione mi pongo sulla linea di mezzeria, nella dirittura di una possibile rivoluzione sociale e poetica da darsi in Italia non come poesia totale (Adriano Spatola ieri) né come poesia museale (Nanni Balestrini oggi) ma come una posizione d’impegno di cui il verso, l’immagine, l’urlo, la musica, il ritmo, il gesto, se usati come armi polemiche verso nemici concreti e ben individuati, possono diventare una stupenda azione rivoluzionaria. In omaggio alla beat generation ho creato questa videopoesia su alcuni versi di Burroughs e, soprattutto, di Allen Ginsberg. Ne sono poi seguite “azioni” video-performativi svolte sia nella rassegna cinematografica MiniarenaPigneto dell’ass. Alphaville (i grandi Patrizia e Pino!) sia in diversi locali di Roma. La parte audio è stata da me resa in loco in vivavoce.


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