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A dire “albicocca” cosa diciamo?

Diciamo sempre la nostra consapevolezza della cosa. Ma la consapevolezza di una cosa è sempre diversa, poiché la materia della nostra mente è sempre diversa, mutevole, o così dovrebbe essere. Ma anche se siamo chiusi in una casa, e la nostra casa mentale è chiusa e fatta di muri verso ogni esperienza di diversità e mutamento, c’è pur tuttavia il nostro mondo interiore, coi suoi cambi anche repentini, tali che possono far passare un intero universo tra 0 e 7 secondi. Universo che dipende dall’agilità dei nostri pensieri all’interno delle mura, o della gabbia. La parola “dipende” è dunque la parola che presiede a ogni discorso su qualsiasi tema, anche rispetto a un’albicocca.

La mente di un carcerato dovrebbe essere meno agile e volante di quella di un uomo libero? Scusate, vorrei cambiare la parola “libero” con “non carcerato” poiché anche qui, quando diciamo la parola “libero”, usiamo un’angolazione visuale, un concetto della cosa che può variare a seconda della nostra consapevolezza della cosa. In questo caso l’albicocca è una condizione di stato; infatti, se metto a confronto la mia condizione di stato “libero” con quella di un carcerato posso appunto affermare di essere libero, ma se poi devo lavorare per poter provvedere alle spese della casa, del veicolo privato o dell’abbonamento al mezzo pubblico, delle varie tasse sulla mia proprietà o sull’affitto, e poi sul mio lavoro, sui miei consumi e rifiuti e tante altre cose, ecco che l’economia quotidiana mi impone una condizione diversa da quella espressa con la parola “libero”, e se non assumessi una consapevolezza corrispondente alla mia reale condizione questa bella parola assomiglierebbe sempre più a una brutta parola, usata da qualcuno o da un’intera cultura per distrarmi da me stesso.

La nostra consapevolezza è un salto al di là dei dizionari e delle propagande, è un’ascesi che si offre a tutti, laicamente e globalmente, su un’intera società.

Ascesi mentale, o “trasmentale” ( Majakovskij), fra la nostra mente e la cultura dominante, che è Dominio. Dovrebbero essere i dizionari a dipendere dalle menti che li stilano, e non il contrario . Proprio come le parole dei dizionari, che sono organizzate secondo lo schema: da una parte la parola da definire e dall’altra, su una fila appaiata, la definizione, che è sempre compresa in poche o pochissime parole (che sono altre parole e non esempi o rimandi ad azioni da fare – ma su voglio tornare più tardi), in modo molto simile le cose della cultura dominante (“la parola porta la cosa” – André Gide) sono organizzate dal Dominio perché la nostra mente abbia forma similmente schematica, semplicistica, bruta e, infine, folle. La semplicità, linearità e schematicità di un dizionario non ci dà forse il senso di una qualche follia? Una follia lineare perché, appunto, organizzata e organizzatrice. La nostra stessa mente è concepita dagli stati civili, in quella forma di civilizzazione che conosciamo noi “occidentali”(altra parola che dovrebbe essere risignificata, come del resto la stessa parola “civile”), per essere una sommatoria di nozioni fisse e comprese in poche sillabe, proprio come quelle dei dizionari, che ingialliranno prestissimo, proprio come le pagine di carta.

La nostra mente non deve essere un universo di agili pensieri e consapevolezze attive e dinamiche che mutano cercando il più possibile di stare al passo con la realtà, con la natura (da cui veniamo, come madre) e coi mutamenti del mondo.

Anche la realtà tende a “ingiallirle”, e tende sempre a una trasformazione, che essa realizza, in cui siamo compresi anche noi. Ma lo fa con la propria potenza che è novità, diversità, mutazione e non con l’artificiosa, astratta, stantia forza di una formula di definizioni. Qualcuno disse: “definire è uccidere”. Io dico che vi sono definizioni più o meno assassine, perciò vi parlo di un dizionario dinamico al passo con le cose che esso simboleggia con ciò che chiamiamo “lingua”. Chi ha detto che una lingua debba essere necessariamente convenzionale?

Quanto noi possiamo ben vedere nella natura non è mai convenzionale, ed è per questo, per meno rischiare l’insensatezza e la follia della convenzione fissa, e per essere più naturali e reali possibile che io propongo di superare i vari Zanichelli o Garzanti per stilare nuovi dizionari. Dizionari dinamici e quindi più veritieri, che tengono in conto il mutamento generale.

Un’idea potrebbe essere rimandare il lettore del dizionario a un riscontro nella realtà. Perlomeno su una buona parte dei vocaboli, e sicuramente quelli più a rischio di propaganda, ma anche quelli legati alla natura, che sta mutando sotto i nostri occhi più o meno spaventati, in questo momento di strani tzunami, nuovi fenomeni, plurime estinzioni e processi ambientali tali da ridisegnare il pianeta.

Donald Trump ha dichiarato di non voler firmare “il patto sul clima” e questo fra poco porrà certo l’esigenza di riscrivere i dizionari del mondo; sono infatti sicuro che la maggioranza dei dizionari del mondo riportano, come fossero vivi, nomi di animali che sono estinti già da qualche anno. E sono molti altri gli animali che di questo passo si estingueranno nelle prossime ore del mondo, se il patto sul clima non diventerà un principio universale indiscutibile.

Ma se il dizionario è consapevole dell’estinzione del mammut, e ci offre tale consapevolezza, perché continua ad annoverare come esistenti quegli animali, quelle cose e quegli oggetti che invece sono estinti o “superati”? Non mi riferisco solo ai dizionari cartacei, che scontano un ineluttabile ritardo sulla realtà, ma ai dizionari on line, che sono quotidianamente aggiornabili.

Ma a parte gli animali, anche le cose e gli oggetti si estinguono, o mutano, e l’estinguersi o il mutare di un oggetto o una cosa è un fatto che dovrebbe essere riportato nei dizionari, se non vogliamo che il significato dato della cosa non sia falso, non più reale, o totalmente impreciso.

Quando un dizionario riporta un vocabolo obsoleto lo chiama “obsoleto”, ma siamo sicuri che oltre a quelli definiti ufficialmente obsoleti non siano molti di più i vocaboli significanti cose ormai superate nella vita reale? Un buon dizionario dovrebbe spendere almeno una riga sullo “stato reale e vitale” del vocabolo menzionato. Se il rinoceronte esiste ancora oppure no, se l’aratro esiste ancora oppure no, etc.

Ecco che tutto va nel senso della conoscenza e della “consapevolezza”; torniamo quindi alla nostra “albicocca” e alla nostra condizione di “libertà”.

La mia condizione di uomo libero non carcerato, che è tipicamente cittadina, e in quanto tale non solo mia ma di milioni e milioni di persone, va considerata a seconda dei gradi diversi di consapevolezza. Potremmo anche essere molto più simili a dei carcerati di quanto non pensiamo se, per esempio, la nostra condizione viene confrontata con la condizione di un contadino che vive del suo raccolto e una volta effettuata la scorta di viveri necessaria a sostenersi per mesi, così come la scorta di legna per alimentare il camino, può benissimo smettere di faticare e di avere preoccupazioni, e può sdraiarsi nell’erba, riposare, giocare coi figli, andare a cavallo, leggere libri a iosa, scrivere, nuotare in un fiume pulito ( se ancora ce ne sono) e assumere così un’infinità di abitudini volte alla libertà e ai segreti dolci della vita – tra cui metto anche i segreti amari e dolci della conoscenza – e dunque a tutti quei piaceri che si possono estrarre e godere perfino con buon grado di estasi e che sono completamente irraggiungibili al comune cittadino che procede di rovina in rovina, di patologia in patologia, per segmenti di vita-non vita che possono essere qui tradotti in altri segmenti come casa-lavoro, traffico-rumore, diffidenza-paura, stress-sfogo, pillole-alcool ecc. Tratti della vita cittadina e in particolare metropolitana che infine possono facilmente combinare, tutti insieme, quel cocktail di follia che nel dizionario si chiama “metropoli”. Ma i dizionari non ci parlano con franchezza della metropoli, non ci forniscono conoscenza, non ci inducono alla consapevolezza.

Mediocri, poveri, semplicistici? No, in realtà sono anche volontariamente falsi, ideologicamente speculari al Dominio, e dunque non portano il significato reale e nucleare della parola ma ce ne danno solo un senso astratto, teorico, tecnico, esteriore secondo lo schema improntato dall’alto . L’Accademia della Crusca, se esiste ancora, è una falsa Istituzione con la i maiuscola preposta a fuorviare la nostra consapevolezza della realtà per via di un consesso di linguisti sempre più tecnici che sono ormai una vera associazione a delinquere nell’ottica del sommo principio di consapevolezza. L’intenzione e il perseguimento della conoscenza reale dovrebbe presiedere a tutto, appunto come principio. E a maggior ragione dovrebbe essere il principio di chi opera a livello istituzionale. Chi agisce contro il principio di conoscenza reale dovrebbe essere punito.

Quando questo principio sarà finalmente chiaro e dato come valore sociale, e legale, i linguisti compileranno i loro dizionari definendo la parola “metropoli” anche e proprio per i suoi risvolti tremendi e complessi sulla vita del cittadino e sulla vita dell’intero pianeta. D’altronde, non sono le metropoli con la loro vita industriale e consumistica ma anche elettronica ed energetica le grandi responsabili della tossicità della Terra? Le fabbriche e le centrali elettriche e nucleari non esisterebbero se fossimo un mondo di agricoltori o pastori.

Sarà sempre un improbabile dizionario non propagandistico di una rivoluzionaria Zanichelli del futuro a dare alla parola libertà un significato fondato sulla parola “dipende” e non sullo schema fornito dal Dominio.

Ma seguendo il flusso della parola “dipende” possiamo considerare anche il contadino, e non solo il cittadino, molto meno libero di qualcun’altro. Se assumiamo l’angolo visuale di un vagabondo che dorme per le strade e mangia alla mensa dei poveri ecco che qualsiasi contadino, anche il più capace di provvedere a se stesso e a liberarsi della stretta esistenziale, potrebbe apparire come una specie di “carcerato”. Lo vedremmo là nella gabbia del pollaio insieme con le sue galline, impossibilitato ad assentarsi da casa neanche due giorni per sfamarle o per provvedere al raccolto, ed esposto a perdere anche la minima libertà, che gli può essere tolta facilmente, se questa dipende da una gelata di troppo o da una siccità non contemplata.

Un tempo esisteva anche un’altra condizione umana di vita: la bohème. Ma probabilmente, oggi, neanche a Parigi esiste più quel ristoratore disposto a sfamare un pittore in cambio di un quadro. E c’è anche la condizione dello zingaro, che se non è più il nomade di una volta del nomade conserva comunque la roulotte e una certa quota di vita brada.

Quanta pena dobbiamo ispirare noi a certi zingari, così come ne potremmo ispirare a certi contadini romeni che ho conosciuto; noi che siamo cittadini occidentali coi nostri stress e i nostri debiti contratti fin dalla nascita. Chi nasce con la casa, se la porterà addosso prima o poi, che sia un loft o una bicocca, proprio come il contadino con le sue galline.

Entrando per curiosità in un campo nomadi conobbi un giorno uno zingaro che diceva di istruire suo figlio non con la scuola dell’obbligo ma con le virtù della sua roulotte, che probabilmente era una biblioteca su ruote. Ma seppure non fosse stata una biblioteca su ruote e non avesse fornito quelle conoscenze e nozioni che stanno nei libri, cosa che tutti presumiamo pur non essendovi entrati, potrebbe aver soddisfatto davvero l’istruzione del figlio. State forse sorridendo a questa idea? Molti ora staranno sorridendo, o dovrei dire “ghignando dall’alto”, perché presumono – ma con troppa presunzione – che l’affermazione di quel padre di famiglia zingaro è ridicola, o una cosa fuori luogo, un’assurdità, un’affermazione ignorante. Qualcun’altro invece, in virtù del suo disprezzo razzistico o aprioristico verso i rom, starà pensando che è una menzogna spudorata, da malvivente che si nasconde, da furbo, o magari è un’affermazione tesa a evitare la scolarizzazione coatta che negli ultimi decenni è stata esercitata sui campi rom mandando alla suola dell’obbligo coloro che erano in età .

Un’altro lettore tra voi starà invece pensando di chiudere questa lettura in quanto il suo autore è più matto del matto, come si dice. E forse lo sono davvero, se quel giorno di tanti anni fa entrai in quel campo nomadi con l’ansia di sapere, una forza tutta intellettuale e priva di schemi a priori, proprio come feci sul caso Liboni andando a intervistare la gente di Montefalco. Ma se me lo consentite, dopo tanto tempo da quel giorno e cioè dopo quella buona sedimentazione che rende il vino prezioso, la mia preziosa domanda è questa. Siamo proprio sicuri che il figlio di quel panciuto zingaro dal viso allegro e simpatico, che mi ha così ben accolto parlandomi francamente e senza ombra di riserbo o malafede, quel figlio, o figlia, che è stato istruito nella roulotte, non ha infine appreso la vita e il disegno globale delle cose meglio di un figlio tipicamente scolarizzato secondo la scuola dell’obbligo?

La vita non è certamente la scuola, né il disegno globale delle cose, che è l’ambito della nostra migliore conoscenza, si può insegnare mediante libri e lezioni tenute in una classe, ma allo stesso modo si deve affermare che la vita non ci insegna la matematica, né è possibile sostituire la matematica se non con la matematica, o insegnare la matematica con altro che non sia la matematica. Eppure, quel padre di famiglia era molto sicuro di sé e dei propri insegnamenti ed era molto certo che l’istruzione potesse sgorgare direttamente dal campo nomadi, dalla roulotte, invece che dalla classe coi libri di testo, con le maestre e poi con le professoresse delle varie materie.

Su questo mi piacerebbe che qualcuno svolgesse un’indagine sociale seria.

Se ne avessi la possibilità mi piacerebbe intervistare questi “figli non tipicamente scolarizzati dei campi nomadi” per metterli a confronto coi i “figli tipicamente scolarizzati di una nazione civile come l’Italia”. Basterebbero poche domande, a partire proprio dalla matematica, toccando poi la storia e l’arte. Probabilmente un ragazzo tipicamente scolarizzato e ancora in età scolastica, cioè fresco di nozioni e conoscenze, esprimerebbe in modo addirittura sorprendente un grado di cultura anche buono o quantomeno sufficiente da far sperare chissà che per il suo futuro; mentre un ragazzo istruito nel campo nomadi potrebbe non avere neanche l’1% delle nozioni e delle conoscenze matematiche e scientifiche, storiche e artistiche del suo coetaneo tipicamente scolarizzato.

Ma il paragone è quasi cinico, e da una parte implica anche un errore grossolano, poiché stiamo parlando di una cultura stanziale, quella italiana, la cui scolarizzazione massiva si pratica fin dagli anni ’70, contro una cultura nomade la cui scolarizzazione e lo stesso concetto di scuola non esistono o se esistono è solo all’interno di una cultura che si tramanda in modo famigliare. Probabilmente nel loro dizionario non esiste nemmeno la parola “scuola”, e se esiste è per conseguenza dell’incontro coatto tra la civilizzazione rom e la civilizzazione italiana. Se però ritorniamo dopo qualche anno da questi ragazzi tipicamente scolarizzati e, direi, tipicamente italiani, e li intervistiamo ponendogli le stesse domande di allora, secondo voi riscontreremmo lo stesso grado di cultura e di freschezza intellettuale di allora o anzi più ampio, come dovrebbe essere? Io sono sicuro di no, perché vedo bene qual è la loro condizione intellettiva e intellettuale degli adulti italiani medi. Vedo bene quanto non è rimasto in vita niente, dentro di loro, dei poeti studiati, delle radici quadrate e delle balene. E la vedo anche in me stesso, questa morte, questo morto bagaglio di conoscenze che fanno di quel ragazzo o quella ragazza che fummo una sorta di penoso fantasma. Ma è colpa nostra soltanto, o è anche colpa di una scuola improntata a un sapere deciduo e affidata a insegnanti cattivi?

Resta appena in me, a brandelli, in pezzi, un nozionismo facile da enigmistica che non è certo definibile come vero grado di cultura.

La maggioranza dei ragazzi tipicamente scolarizzati dimentica tutto o quasi, ed anzi prosegue in quella direzione che io chiamerei di “opposta scolarizzazione” e che consiste nell’abbandonarsi a quell’azione opposta, che è tipica dell’ideologia e del flusso del Dominio cui siamo sottoposti, nel cui segno si dà quel grado di oblio, nettamente contrario a ogni sapere e consapevolezza, che è sotto gli occhi di tutti. E’ l’ideologia dell’inconsulta, inconsapevole, irresponsabile, opaca, irrazionale vita quotidiana così come viene organizzata dall’alto dei governi e da quella manciata di capitalisti così simili tra loro da non indicare altra ideologia che questa.

Oblio o sospensione di ogni conoscenza, ed anche questo sfumato in gradi, come la consapevolezza. Dal grado più basso al medio a quello più alto e in qualche modo colto, o meglio: ornato di nozioni ardenti ma non profonde. Il brillante scienziato o il bravo filosofo, per quanto esperti sulle neuroscienze e sulla quantistica, sono così lontani dalla consapevolezza di un Lao Tzu che parla di uomo naturale o di quel poeta greco che nelle sue opere portava l’intero mondo coi suoi mali e le sue grandezze, e cioè quel disegno globale che ho detto prima.

La maggioranza continua dal diploma e dalla laurea perseguendo un nuovo analfabetismo. Ho conosciuto di persona più di una restauratrice e più di un’archeologa che all’atto della scrittura non solo commettevano errori grammaticali elementari, che sono poca cosa, ma addirittura non sapevano far filare tre righe. Gli errori semplici sono scusabili, anche i più grandi scrittori ne commettono, tanto che coloro che chiamiamo revisori di bozze non intervengono per caso ma per un ruolo ben definito; il problema vero si dà più che altro quando dalla grammatica alla matematica alla storia all’arte e alle tante discipline che i ragazzi studiano anche con impegno si comincia a “perseguire” l’opposto: quell’Oblio tipico in cui è così abile l’italiano medio adulto a dimenticare ogni conoscenza e cioè ogni volontà di conoscenza, e dunque se stesso. La parola “adulto” è fondamentale, quanto la parola Dominio. Il Dominio è adulto, e questo Oblio particolare potremmo chiamarlo il “destino adulto”. Sono tentato di dire che il popolo italiano sia più abile di altri popoli e vi si applichi come ai tempi della scuola, in questa morte, ma se fosse così sarebbe un popolo volontariamente suicida e questo non è, nemmeno in questo il mio popolo esprime una scelta.

La lingua italiana, da 9000 vocaboli si è ridotta a cosa? I neologismi stranieri che la dominano sono migliaia. Gli stessi insegnanti della scuola italiana vengono aggrediti dallo Stato con frasi e acrostici quali “peer to peer”, “ITC”, “LIM” e altri lemmi che a colpo d’occhio, da quel che ho visto leggendo alcuni documenti interni alla scuola, dovrebbero ammontare a cinquanta o più. Tutto un gergo incomprensibile agli stessi insegnanti. Ma se questo è solo un gergo tecnico del corpo docente e non esula dal proprio ambito, molto più invadente nella nostra vita e cultura è il linguaggio dei giornalisti. Vocaboli stranieri presi di peso dall’economia, dallo sport, dalla moda, ecc. che seppure non entrano nei dizionari entrano di fatto nella nostra lingua udita e parlata. Ed entrano nella cultura, che non è solo la moda e l’estetica, ma è l’idea stessa che un popolo ha di se stesso. L’uomo estetico e l’uomo etico sono concomitanti e intrecciati, e non avremmo letto l’accorato pensiero di Kierkegaard su questo problema se non fosse così. E l’applicato, ideologico oblio adulto non sarebbe infine il totale, drammatico oblio di se stessi se la mancanza di volontà di sapere non fosse la nuova condizione dell’italiano tipico e dei suoi omologhi di tutto il mondo.

Ma in questo nuovo analfabetismo che si delinea, la lingua è pur sempre una delle principali sedi della formazione e dello sviluppo dei nostri pensieri. Lacan, un uomo dalla visione globale, ci ha insegnato che il pensiero non esiste senza la parola e dunque senza la lingua. Ma cosa ne è dunque dei nostri pensieri, della nostra stessa capacità di pensare, se lingua in cui essi si formano e sviluppano è un luogo ridotto, sporcato e manomesso?

Siamo sempre noi nelle nostre nobiltà interiori a perire quando perisce la nostra capacità e freschezza intellettuale con la sua tensione verso la conoscenza, che è la base del sapere ma anche del semplice vedere e vivere.

Mangiamo i polpi in tutte le salse, ma non sappiamo niente di loro. Non sappiamo che sono antichi quanto gelosi, che il polpo femmina è capace di strangolare per gelosia. Vestiamo le perle in ogni modo, con orecchini e collane, ma non sappiamo che la perla pregiata deriva dal rifiuto dell’ostrica per quell’elemento impuro che è penetrato nella sua fortezza purissima. In realtà chi indossa la perla indossa un granello di sabbia incapsulato in una sorta di vomito secreto da un essere puro.

La lista delle cose che compongono il meraviglioso disegno è infinita ma la scuola dell’obbligo, se siamo fortunati, ce la indica appena, lasciandoci un senso di amore per la conoscenza. Se la maestra è una grande persona con lo sguardo rivolto verso questo Disegno ed è capace di indicarcelo, i ragazzi così scolarizzati sono fortunati. Ma poi ci sono i genitori, la televisione, i videogiochi… che possono fare di quell’indicazione una terra bruciata.

Quante cose non sappiamo ma le viviamo o le usiamo, e ne facciamo addirittura il nostro idolo. Non saper più leggere e scrivere un testo nella propria lingua è stato definito “analfabetismo di ritorno” e questa mi sembra, una volta tanto, guardando il panorama linguistico dei nostri sociologi, una frase chiara ed efficace. Con cui molti di noi devono fare i conti.

Per quanto riguarda invece i figli degli zingari, che non furono scolari tipici italiani né probabilmente, si potrebbe dire, sono predisposti a ricevere forme di tipicità, di stereotipi culturali cui replicare in modo omologato, ecco che le loro risposte da adulti alle nostre vecchie domande potrebbero questa volta sorprenderci per il loro contenuto di cultura. E cioè potrebbero sorprenderci in paragone a quelle degli italiani adulti medi.

Ma veniamo a questo contenuto.

Educato da una madre e un padre probabilmente simile a lui, tra mille fratelli, quel figlio oggi cresciuto risponde alle nostre domande rovistando sia nella sua memoria nozionistica, probabilmente scarsissima come allora, sia nella pratica della vita, che invece è enorme. Notiamo innanzitutto che ha ricevuto nozioni sulla sua lingua e sulla lingua italiana e lo vediamo nel suo contenuto culturale più ampio, cioè nella sua pratica conoscenza delle cose e nella profondità di se stesso, nelle sue nobiltà.

Quindi: il ragazzo zingaro è innanzitutto diventato un poliglotta, parla la sua lingua e quella italiana, mentre la maggioranza degli italiani istruiti non è poliglotta né è in grado di parlare con facilità un’altra lingua. Nel caso italiano la casa mentale è gabbia, e la gabbia mentale è la peggiore. Non vedere al di là del proprio naso è forse il primo problema di questo Paese e di altri come questo. Che sia un problema mondiale lo si vede dal fatto che il mondo continua a inquinare la propria casa come non farebbe mai un’ostrica, e continua a uccidere la balena come uccide sua nonna, per procurarsi appena un po’ di soldi, in generale continuando a prodursi in atti totalmente contro se stesso.

Probabilmente il ragazzo zingaro è diventato padre, ed è felice di questo, mentre l’italiano medio non figlia e non è felice della sua vita. Lo zingaro, dicevamo, è ricco di conoscenze molto pratiche e legate alla sussistenza, però non conosce né Michelangelo né Leopardi. Molti zingari conoscono perfettamente l’arte del violino, o della fisarmonica, e pur senza conoscere le note suonano benissimo ad orecchio, così come ad orecchio potrebbero essere in grado di replicare perfino un Paganini. Del resto è così: se la musica serve ad accompagnare bene noi stessi o le cerimonie del nostro campo, allora la conoscenza di Paganini e del violino ha un senso vivo ed è viva, da musicista che suona la musica, non da scolarizzato che ha studiato Paganini astrattamente, per mera programmazione organizzata dall’alto.

La maggioranza degli italiani istruiti non ha dimestichezza nemmeno con lo svitare una lampadina, figuriamoci con un violino!

Ma lasciamo l’arte un momento e veniamo alle scienze, dato che la nostra cultura dominante si professa tecnico-scientifica. Ebbene, mentre l’adulto medio tipicamente istruito ricorda appena qualche nozione generica sui minerali e sui metalli, lo zingaro potrebbe invece stupirci per la sua conoscenza viva del rame, poiché lo ha estratto e lo estrae ancora, lo ha fuso e plasmato nei modi più diversi e dettati dalle circostanze, ovvero in quel particolare luminoso buio della vita in cui la nostra sapienza naturale riceve l’input ad affinarsi. E’ il buio lucente della necessità.

Le persone civili che conosciamo e che siamo noi non hanno necessità di affinare la conoscenza di nulla poiché la vita quotidiana media, anch’essa tipica come la scuola, non ci chiede di vendere il rame per vivere né altre cose che implichino una conoscenza. Chi vende le case di solito non sa come sono costruite. Chi vende le barche di solito non ha la patente nautica. Nel capitalismo si può essere “grandi” senza alcun titolo. In altri termini il capitalismo, che è l’ideologia in cui viviamo, non chiede a se stesso di sapere ed anzi si basa sulla netta mancanza di titoli e patenti. Diciamo che il Dominio non solo non sa che farsene della conoscenza ma ovviamente la teme.

Alcuni zingari sono stati trovati a rubare rame da un cantiere edile, e questo li decreta dei ladri, ovviamente, ma quanti di voi leggendo questa mia riga hanno percepito anche un’altra idea oltre quella che riguarda l’ordine pubblico? Oltre all’idea del ladro si è prodotta in voi, spero, anche l’idea del lavoratore del rame e cioè la consapevolezza di un cultura, non solo di un ordine sociale mantenuto con la polizia e con i giudici.

Quegli zingari non hanno rubato altri oggetti del cantiere che quell’essenza pratica, quel bel metallo arancione; sono dunque legati culturalmente all’oggetto rubato, e questo deve far parte della nostre consapevolezze così come sicuramente questa consapevolezza farebbe parte della memoria difensiva del loro avvocato.

La frase “essenza pratica” si addice bene agli zingari. La loro non è certo una cultura e una vita di fronzoli, fatta eccezione forse per l’oro con cui amano adornarsi.

Torniamo quindi alle scienze passando per i metalli. Cosa ricordate voi delle tante lezioni di scienze ricevute a scuola quando eravate ragazzi?

Un adulto medio italiano potrebbe ricordare come avviene la fotosintesi clorofilliana, ma non nei dettagli, oppure come avviene il fenomeno della rifrazione della luce, ma non nei dettagli ed anzi, diciamolo pure, in modo schifosamente generico. Potrebbe anche avere una mezza idea di come avviene la digestione di un animale erbivoro e qual è la differenza tra un cetaceo e un mammifero, ma sempre in modo penosamente generico. E non è anche per via di questa ignoranza che le balene vengono oggi perseguitate e uccise per mano di persone tipicamente istruite?

Potremmo definirlo “analfabetismo di ritorno macroscopico”, quando è l’intero disegno delle cose e non solo la lingua ad essere stato obliato.

Questa volta la scuola italiana è salva, a fallire qui è la tanto stimata scuola dell’obbligo nordeuropea e la sua cultura, che non è riuscita a educare i propri figli nel rispetto delle balene. Lo ripeto: è come se cacciassimo con arpioni le nostre stesse nonne, ma nell’oblio nordico questa mia affermazione ha sempre più il suono e l’aspetto di una ecolalia.

Continuo dunque a intervistare lo zingaro.

Egli non sa niente dell’apparato digerente del cavallo, dice che non lo ha mai studiato ma lo ha visto spaccato in due da un coltello. Non ha nemmeno una mezza idea anatomica del cavallo, ma mi stupisce, perché a un certo punto si accende in viso e mi dice che ha cavalcato un cavallo. Io allora lo guardo con invidia, ma benevola, sono felice per lui. Dice che li ha sempre visti liberi, i cavalli, che quand’era bambino li vedeva rientrare da soli alla stalla. E certamente tale realtà vitale non è neppure paragonabile alla realtà astratta del cavallo illustrata dal nostro libro di scienze. Forse suo nonno ancora pratica l’arte del maniscalco, in Romania.

L’insufficienza dell’adulto medio italiano istruito è oggi il “trend” della sua realtà intellettuale. E voglio ripetere la parola “trend”.

La conoscenza, che determina il grado e il valore della cultura, è sempre lo stato di una capacità intellettiva. L’intellettualità di una persona si dà nella sua stessa abilità a percepire, elaborare, riflettere, ecc. , e ad essere infine consapevole. Ma l’intelletto si nutre di nutrimenti terrestri (Andrè Gide), non è automatico e meccanico come nelle parole incrociate dell’enigmistica, per quanto tale gioco sia piacevole e allenante. L’intelletto è attivo solo se viene nutrito. Cos’è infatti la conoscenza individuale se non l’insieme dei nutrimenti fondamentali ed essenziali? Come per una casa la sua struttura, questi nutrimenti sono la calce in cui ci ripariamo, che è utile, ma soprattutto sono le finestre da cui vediamo il mondo, che più che utili sono assolutamente necessarie affinché la casa non sia un carcere.

“Casa” dovrebbe essere ciò che si accorda a noi più per il vuoto che essa ci porge, per quello spazio presente in essa in cui ci raccogliamo in solitudine o in compagnia, che per i mattoni e la calce su cui poniamo mobili, fissiamo quadri e appendiamo calendari temporanei come tutto ciò che è deciduo e incline ad impolverarsi, compreso il chiodo che li inchioda al muro. Anche i chiodi primo o poi cadono,così come arrugginiscono quei loro parenti presenti nel cemento armato che chiamiamo “tondini” e che servono a lottare contro un sisma . La nostra difesa principale non è però nel ferro e nella sua fissità o elasticità, bensì è nella nostra meglio nutrita abilità intellettuale. Così necessaria a resistere ai terremoti della cultura di massa. I fautori del Dominio ci vorrebbero rinchiusi nella loro cultura come carcerati stupidi, e qualcuno vi si fa addirittura ingaggiare come secondino stupido.

Tanto più è ampia la nostra conoscenza tanto più è ampio il nostro spazio interiore, che è il luogo dove comprendiamo le cose che ci circondano, dove cioè resistiamo alla stupidità, ed è la nostra prima casa.

Se la conoscenza della scrittura, che è un insieme di segni, ci permette di leggere un libro, non diversamente da un libro con la sua maggiore o minore oscurità si presenta la realtà intorno a noi. Ed è con maggiore o minore abilità, speditezza e freschezza mentale che noi possiamo leggerla e comprenderla, oppure possiamo continuare a non comprenderla e a non volerla conoscere, con la conseguenza di fare su e giù nella sua gabbia come una tigre. Siamo tigri, tutti, nella nostra potenza di agilità e forza, ma se questa forza resta a un livello di potenza, siamo solo degli ebeti. Ebeti tanto presuntuosi da credersi immensamente superiori a quello che sono.

Siete proprio sicuri che il carcerato mentalmente e intellettualmente agile, colui che nelle sue quattro mura squallide alza lo sguardo verso uno scarso quadrato di cielo azzurro e percepisce la primavera, e magari cade per essa in una sorta di estasi, seppur atroce, sia meno libero di quell’uomo che ogni giorno per anni percorre gli stessi metri di strada tra un duro lavoro e una casa cui è legato dal debito del mutuo o da un affitto atroce e tutto questo solo per fare la spesa, pagare le tasse e poter acquistare pillole contro l’insonnia e la depressione?

Ho conosciuto un uomo che in galera è diventato abbastanza colto da aver fatto della sua vita successiva alla galera una cosa abbastanza libera. Il grado di cultura determina il grado di libertà. Là ha potuto leggere libri e comprendere tante cose che non aveva capito, ma questo non significa che “ha messo la testa a posto”, anzi, la sua prima consapevolezza di sé è avvenuta il giorno in cui ha percepito di non essere uno che doveva mettere la testa dove ce l’ha la maggioranza, cioè nel culo.

“Disadattato”, “drop out”, lo definivano così. Egli era un pittore. Ha sempre amato dipingere, fin da ragazzo, pur nel suo passato di droga. Si drogava come un bohémien e la droga solleticava la pittura, l’ispirazione artistica, un po’ come accadde per molti altri pittori, compresi i più grandi maestri, che la usavano più o meno compatibilmente con la loro musa.

Ma questo fatto per un piccolo paese di poche anime è certo un gran reato. Anche i reati infatti “dipendono”. Dipendono per valore e significato dalla cultura generale, ed anche le loro dimensioni dipendono, se grandi o piccole, dalla stessa ampiezza della città o del paesino in cui succedono, nonché dall’urbanistica e dalla demografia della città.

In una città dove vivono milioni di matti nevrotici squilibrati come Roma e tanti sono i morti ammazzati, un pittore che dipinge i suoi quadri e assume qualche sostanza nel chiuso del suo atelier passerebbe come un cittadino modello. Invece, nel piccolo paese di persone perbene, dove la polizia è il braccio armato del perbenismo e il commissariato è situato nelle case di tutti, il piccolo pittore drogato è un pericolo. La polizia ha cominciato a prenderlo sott’occhio, e diciamolo pure: a perseguitarlo, finché la sua bottega d’arte è stata chiusa e l’uomo, in preda alla rabbia, ha ucciso un poliziotto sparandogli con una pistola. E come la vita del poliziotto è finita con la divisa lacerata dalla pallottola, la cattura del “mostro” è finita con la morte del pittore.

Sono stati i libri la colpa di tutto questo?


Qualcuno potrebbe metterla così, e forse l’hanno pure messa così, ma se davvero così fosse allora questo Paese dovrebbe essere privo di drogati, di reati, di pistole e anche, per riflesso, di poliziotti, mentre invece ciò che risulta è l’esatto contrario, ovvero che le forze dell’ordine godono qui di buona salute, che nei Paesi di tutto il mondo la parola “polizia” è una delle più comprensibili – tanto da sembrar tutti poliglotti – , che le pistole si trovano facilmente, perfino nella contadinesca Romania, e che, invece, sono proprio i libri e i pittori a godere di pessima salute e a incontrarsi sempre più difficilmente e di rado.

A questo proposito, alla parola “libri” nel mio dizionario attivo c’è scritto: bisogna andare nelle immense librerie di oggi (ad es. Feltrinelli, Mondadori e IBS) per apprendere cosa sono diventate le librerie e come ad ogni nostra domanda su un libro di poesia la risposta dell’addetto sia negativa. Potrei fare qui una lista lunghissima di libri che non ho trovato in nessuna delle suddette librerie. Una lista di libri veri, tanto veri che la parola “libreria” dovrebbe essere corretta in ogni dizionario che si rispetti.

Dal Garzanti leggiamo:

Libreria: 1. negozio di libri: libreria giuridica, universitaria, antiquaria. 2. mobile a ripiani destinato a contenere e conservare i libri: una libreria di noce.

Nel mio dizionario io scriverei:

Libreria: non più luogo destinato a contenere libri ma una sorta di supermercato destinato in primo luogo a contenere prodotti di mercato tra cui solo di rado “libri”, per lo più inteso a vendere oggetti a forma di libro privi di ogni valore letterario e con aggiunte di gadjet e altro.

Luogo adibito alla vendita di dischi, fumetti, magliette, videogiochi, giochi da tavola etc. Esempi pratici che indichiamo al vostro intelletto attivo e critico sono, in Roma, la libreria Feltrinelli di Largo Argentina e la IBS di via Nazionale, e, in Milano, la libreria Mondadori a via…

A proposito di libri, è meglio che non citi qui le statistiche recenti in fatto di lettura di libri in Italia. Per la maggioranza degli italiani è come se i libri fossero scomparsi dalla faccia della Terra. Eppure le cosiddette librerie ne traboccano. Vi sono più libri oggi che cento anni fa. Libri stranieri, nostrani, gialli, rossi, a pallini, tascabili, di gomma, resistenti all’acqua.

Questo avviene come tutto oggi per motivi di mercato, ma anche perché nel peggiore dei casi i libri sono solo parole. A volte anche molto brutte, come la parola “trend”, che ho usato prima apposta per dare una scossetta a questa mia discettazione eseguita in buona lingua italiana, e cioè nella lingua di Dante, come si dice, ma che è anche la mia lingua, la nostra lingua.

Lingua nella quale mi pregio di comporre per me e per voi questo scritto, sentita e vissuta da me ancora nel suo senso originario e nella quale voi potete leggermi, se volete, o non leggermi. Ma per quanto io la scriva e voi non la leggiate, sappiate bene che parole come “trend” sono ormai sedute come regine dentro di noi, o come padrone di casa, nella nostra prima casa.

Le parole sono le nostre stesse anime.

I dizionari non sono scritti più nel rispetto dell’Accademia della Crusca ma nel timore ossequioso dell’Economia e dei suoi Consigli di amministrazione (che sono anche quelli delle testate giornalistiche e delle case editrici), e forse sono proprio queste parole italiane di oggi la vera prova che l’Accademia della Crusca è morta. E con questa anche Dante, ovviamente. E forse anche la Società Dante Alighieri centro studi e scuola per stranieri. Quand’ero a Berlino ho cercato più volte la Società Dante Alighieri, sia telefonando sia andando di persona. Il suo nome mi ispirava. Dante aprì un dibattito fondamentale sulla nostra lingua, che ancora io sento aperto e urgente sebbene nessuno lo intavoli. Ma anche Boccaccio si pose il problema del volgare, cioè del dialetto. Tema che poi fu ripreso dal veneziano Bembo e da tanti altri. Ogni grande scrittore italiano si è posto opportunamente questo problema, dato che ogni lingua implica il legame oscure del parlante sia con se stesso sia col proprio popolo. La lingua è l’essenza di un popolo, proprio come la letteratura ne è lo spirito (De Sanctis). Come quel filo di rame strappato dallo zingaro nella notte, la lingua è un filo che dà luce all’intero edificio sociale.

Se non fosse stata abbandonata ai “trend”, ai “selfy” e ai “fare outing”, che è il linguaggio dei padroni, dei direttori della stupidità generale, dei maniscalchi di quegli asini che vengono spacciati per cavalli, ecco che già la lingua stessa, per proprio moto interiore, ci permetterebbe una buona parte di quell’ascesi necessaria, chiamiamola così. Uno dei primi bisogni del popolo italiano è quello di elevarsi sulla malnutrizione intellettuale di cui esso soffre mortalmente. Ma senza il dibattito, che è il supporto di un moto intellettuale lucido e consapevole da parte di poeti, narratori, giornalisti, linguisti, antropologi, sociologi, etc. la lingua italiana o si riduce a una neoprimitività di suoni gutturali inconsapevoli come questi esposti sopra, oppure al mutismo. Il suo parlante, l’italiano, o si riduce a bifolco oppure resta muto, come il telefono della Società Dante Alighieri a Berlino, sempre muto, ogni volta che ho chiamato.

Oggi quel campo nomadi sulla via Casilina poco prima di via Togliatti dove andai a fare quelle domande non esiste più, è stato sbaraccato o “superato”, come dice il dizionario odierno (vedi il sindaco di Roma Virginia Raggi che in data 30 maggio 2017 presenta il suo progetto volto a “superare i campi nomadi”).

E cosa resta nella nostra bocca di quella prima albicocca che abbiamo assaporato?



Oggi diciamo “albicocca”, ma quando ancora non sapevano come si chiamava l’abbiamo conosciuta in versione purè, schiacciata dal cucchiaio di nostra nonna o nostra madre. Non avendone consapevolezza non l’abbiamo certo apprezzata come invece capitò poi, all’età di undici o dodici anni, se mi ricordo bene, quando ai brividi dei sensi si associano i brividi della coscienza e albicocca comincia a significare “casa di mia nonna al mare”, “bellezza dell’estate”, “il mare stesso nella sua ampiezza”. Si impastava, nella piccola albicocca, una mischia di sensazioni e sapori, come la sensazione del riposino obbligato dopo il pranzo, là nel lettone di mia nonna, nella pelle bruciaticcia, con mio fratello. L’albicocca poteva essere anche il pomo segreto, quello più umile degli dèi. Chi ha detto che le Esperidi sensuali e il serpente Ladone non vigilassero un albicocco? Non sono anche questi dei piccoli pomi d’oro? Tanto che resta nella bocca una paradisiaca violenza, quando con amore furtivo ci si alza dal lettone dove si sta leggendo un fumetto, o si è con Huckleberry Finn, e si va a infilare la mano tra la frutta per cogliere il pomo cotto dall’estate, d’un arancione tendente al mattone, e l’estate, mediante l’albicocca, ci dà il senso di quanto la casa sia protettiva, di come siano sfortunati quelli che stanno sulla spiaggia a quell’ora, coi piedi bruciati attraversando il bagnasciuga, tra asfalti piagati dal feroce calore, su cui l’aria cotta ondula la visione.

Ma la consapevolezza sensuale di un’albicocca si dà pur restando nel letto, perché non è frutto che sbrodola e il problema del nocciolo si risolve facilmente tenendoselo in mano, uno dopo l’altro.

Quand’ero bambino devo aver avuto questa consapevolezza, succhiandola con gli occhi persi nel vuoto. Consapevolezza che oggi è solo un ricordo, oggi che tutto questo non c’è più. La mia consapevolezza di questo frutto mangiato oggi non si manifesta più come allora e il suo dipinto qui è solo un ricordo, una natura morta. Ecco dunque che vi sono diversità, gradi. Diverse consapevolezze e gradi di consapevolezza all’interno di mutazioni, trasformazioni e cambi interiori. Potrei dire che c’è una consapevolezza razionale e ce n’è una sensuale. La seconda è quella del ragazzo e l’ho appena descritta, come un furto, mentre la prima la sto usando adesso, adesso che non ho più dieci o dodici anni ma quarantaquattro fra quattro giorni . Questa è razionale ed è una consapevolezza un po’ triste, forse perché risente del suo stesso peso intellettuale e dei pesi morali e delle stratificazioni del tempo da cui questo peso, che è un diaframma grigio, deriva. Allora non c’erano queste consapevolezze diverse dentro di me, mi accostavo vergine ai frutti della natura e della vita, ma in compenso, oggi che ho più di quarant’anni e come una seconda pelle nella mia bocca, quando mangio un’albicocca posso provare una specie di “consapevolezza sognante”. Poco fa l’ho provata, e ciò ha prodotto questo scritto. Ieri e in queste ultime ore l’estate si è aperta, è iniziata, portandomi alla sua consapevolezza al tocco con l’albicocca.

La chiamo “consapevolezza sognante” questa che proprio poco fa, mentre ero in cucina e mordevo un’albicocca scura ma non troppo tenera, dolce ma non dolciastra, mi ha offerto la visione di me stesso bambino che mangiavo un’albicocca. A questa immagine di ieri ho associato il sapore di oggi.

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UN PROBLEMA ANCORA APERTO PER NOI LETTORI:

Evgenij Onegin

è di Aleksandr Puškin

o dei suoi traduttori?



strofa 1, capitolo XXXV:


la città che si sveglia al rullo del tamburo,

il fumo che sale dai camini in colonne blu,

il fornaio tedesco che s’affaccia, puntuale,

col suo cappellino di carta,

allo sportello della bottega,

la neve mattutina che scricchiola

sotto il passo sollecito della lattaia finnica.

Non sapremo mai abbastanza quanto lo stile metrico e ritmico sia sostanza della poesia. E’ il respiro per l’apneista. E anche quando il poeta stesso non se ne pone il problema, il lettore comunque ne è toccato, e di certo il traduttore deve porselo.

La strofa qui sopra è ripresa dall’Evgenij Onegin, un romanzo in versi lungo quasi 200 pagine, che riporto in minima parte nel proseguo di questo post. L’Onegin sembra essere un vero e proprio testamento lirico di Puškin, ed anche se al primo approccio la lirica appare modesta, e addirittura comica, ecco che poi, continuando la lettura, essa si erge nel suo carattere di opera magna e immensa, una specie di Bibbia popolaresca e nobile dove ogni due versi incontriamo un panettiere, un postino, una sarta in magica alternanza con i più grandi dèi greci e romani. Ed è così che comprendiamo come anche i piccoli fatti quotidiani sono in realtà grandi, e come le più modeste personalità del popolo possono essere magnifiche (al di là di qualsiasi magnificazione poetica!).

Ma l’Onegin è anche un’opera edile eccezionale, dalla struttura classica perfetta. Classica ma anche moderna, se pensiamo alla materia metrica con cui è stata concepita e realizzata: tetrapodia è il suo nome. Solo in apparenza l’Onegin è “semplice”. La semplicità, se c’è, è solo un effetto del cuore, dell’umanità e della personalità del poeta che sceglie di esprimersi con parole comuni, non certo del metro assunto. Qualsiasi metro chiede ferrea disciplina, pure il cosiddetto verso libero, che è un anti-rimatore per eccellenza, un fluido liberatore e anche dissacratore. Infatti, se nel verso libero troviamo delle rime volontarie, fossero pure le più belle mai udite, ebbene queste devono essere motivate e ben allogate nella struttura metricamente liberata, altrimenti rappresentano un’anomalia, un difetto, e anche una cacofonia. Ma torniamo all’Onegin di Puskin: «La natura russa, l’anima russa, il carattere russo… la lingua russa si sono riflessi in Puskin con una purezza, e in una tale bellezza purificata come si riflette la campagna sulla superficie convessa di una lente.» (Gogol). «Poema non fantastico, ma palpabilmente reale, nel quale è incarnata la vera vita russa con una tale forza creativa e con una tale perfezione, quale non era esistita mai prima di Puskin, forse non è esistita neppure dopo di lui.» (Dostoevskij). Tradurre questa lingua di diamante è impresa da far impazzire di disperazione. (Vogüé). Ecco dunque affacciarsi il problema della traduzione.

Nel caso dello scrittore russo per il lettore italiano non c’è scampo, bisogna affidarsi mani e piedi al traduttore. Seppure ci fosse, il testo a fronte non avrebbe senso; quel testo a fronte che è così importante per un lettore vero, il quale ha sempre bisogno di basarsi sull’originale per comprendere la poesia.


Passiamo dunque alla traduzione di Gabbrielli.

Evgenij Onegin di Aleksandr Puskin

CAPITOLO PRIMO E a vivere s’affretta e a provare sensazioni. K. Vjàzemskij

I

“Quel sant’uomo di mio zio!

Guarda cosa ha escogitato

Per aver rispetto quando

Per davvero s’è ammalato.

Il suo esempio faccia scuola;

Ma, perdio, che noia stare

Giorno e notte a un capezzale,

Senza muoversi d’un passo!

E che bella ipocrisia

Coccolare un moribondo,

Rassettarlo sui guanciali,

Dargli farmaci e conforti,

Sospirando dentro sé:

Ma che il diavolo ti porti!”

II

Mentre vola, posta a posta,

La corriera nella polvere,

Questo pensa un rompicollo

Che il voler di Giove ha reso

Dei parenti unico erede.

– Permettete, cari amici

Di Ruslan e di Ludmilla,

Che senz’altro vi presenti

Qui l’eroe del mio romanzo:

È il mio buon amico Onegin,

Nato in riva alla Nevà,

Dove forse anche tu avesti

Vita e fama, o mio lettore.

Anch’io un tempo stavo là

– Ma a me nuoce il Settentrione.

Il poeta russo usa una metrica che noi italiani non conosciamo, la tetrapodia, appunto, ovvero dei versi di quattro piedi con accento sul secondo terminanti con una parola piana..

Emily Dickinson la usa, anche se personalizzata e con molte licenze (i suoi trattini separatori, per esempio), ma la sua tetrapodia spesso s’intervalla con una tripodia e con figure retoriche tra le più diverse, all’interno di una stupenda brachilogia.

Those looked that lived – that Day – —–: allitterazione The Bell within the steeple wild The flying tidings told – How much can come ————— : tetrapodia And much can go, ————— : tetrapodia And yet abide the World!

(Emily Dickinson, There came a Wind like a Bugle)

Ma se posso leggere l’inglese di Emily Dickinson nella lingua originale, non posso altrettanto leggere il russo. Quindi mi affido ai lettori più sapienti di me, i quali mi dicono che il verso dell’Onegin corre, come la sua lattaia finnica. O perlomeno ciò si evince dai saggi compulsati durante il mio autodidatta studio su Puškin.

Non sarà grazie a questo metro “veloce” che il poeta riesce a stare così bene al passo dei fatti più fuggevoli della vita? Alla sostanza della quotidianità? E infine: non sarà per questo metro che l’Onegin sta nella letteratura mondiale come una delle opere meglio riuscite? Riuscire a cogliere in flagrante la vita è ovviamente anche merito del modello metrico con il suo ritmo, e pertanto la domanda che si pone è ancor più ovvia : come può il traduttore italiano rendere a noi lettori la tetrapodia dell’Onegin?

A questo punto andiamo a considerare alcune traduzioni, ma prima analizziamone gli assunti. La nostra forma metrica più simile sarebbe il novenario. Ed infatti la traduzione riportata qui sopra, del sig. Gabbrielli, è in novenari.

Il novenario è appropriato sia per quantità di sillabe sia per la parola piana finale come nella tetrapodia. Inoltre, nel novenario, se l’ultima parola è piana esso si forma con nove sillabe, mentre se è tronca o sdrucciola diventano dieci oppure otto, come nell’esempio qui sotto.

Da Pascoli:

Il | gior|no| fu | pie| no| di| lam| pi Ma| ora| ver|ran|no| le | stel |le


Il novenario però consta di tre accenti, cioè tre battute, quindi è musicalmente più lungo – ma ora… verranno… le stelle – , meno agile della tetrapodia, la quale permette ai lettori russi di arrivare con due salti, e non tre, alla fine del verso: Но, боже мой, какая скука Nella citazione da Pascoli vediamo che la parola “stelle” è sdrucciola, implica uno scivolamento. Ma siamo pur sempre nella poesia di Pascoli, sicuramente inferiore a quella di Puškin. Pensiamo solo al fatto che egli, uno dei nostri più grandi poeti dei primi del ‘900, viene ricordato per quella sua “cavallina storna” che in realtà è liricamente piuttosto pesante e dura nella sequenza di queste coppie di strofe-distici di undici sillabe (enedecasillabi) con rime baciate AA – BB .

“O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non ritorna;

tu capivi il suo cenno ed il suo detto! Egli ha lasciato un figlio giovinetto;

il primo d’otto tra miei figli e figlie; e la sua mano non toccò mai briglie.


Tu che ti senti ai fianchi l’uragano tu dai retta alla sua piccola mano

(…)

Strofe che voglio qui riportare perché nel parallelo comparativo con il grande poeta russo dei primi dell’800 esse si manifestano meglio. E dicono bene quale retorica sentimentale dominava in Italia a quel tempo. Retorica in cui cade tentenna e cade quasi del tutto la tragedia immensa che queste strofe rappresentano, ossia la cavallina che torna alla stalla senza il padre del poeta, ucciso mentre era sul calesse guidato proprio da questa cavalla quando Pascoli era bambino. Se allora non solleticavano il sorriso, per via di quella retorica, oggi non possiamo non sorridere leggendole. Sebbene quella retorica sia ancora oggi vivissima nella sua attuale restaurazione, nel revanchismo televisivo delle lacrime a pranzo e a cena, dei reality e delle fiction, degni sostituti delle telenovelas degli anni ’80 ma con al posto di “Andrea celeste” il mafioso e il vip che piangono in un carcere, su un’isola. Pur rispettando il dolore del grande poeta italiano, beninteso, voglio solo dire che Puskin, cent’anni prima di lui, viene ricordato ancora oggi dal popolo russo per i suoi poemi epici – come l’Onegin – e i suoi romanzi storici colmi di spirito e di allegria, nonché come fondatore della lingua letteraria russa. La nostra memoria serba sin dall’infanzia un nome allegro: Puškin “ Aleksandr Blok.

Ad animare i due poeti è un diverso spirito, che non possiamo mai paragonare con giustizia, ma anche lo scatto e l’energia del metro hanno il loro ruolo.

Ecco qui i versi originali dell’Onegin. In alto vediamo la scritta “Capitolo primo”, più in basso a destra l’esergo, e poi quella parte ditesto che ho riportato sopra tradotto in italiano.

ГЛАВА ПЕРВАЯ

И жить торопится и чувствовать спешит.

К. Вяземский.

I.

“Мой дядя самых честных правил, 4

Когда не в шутку занемог,

Он уважать себя заставил

И лучше выдумать не мог.

Его пример другим наука;

Но, боже мой, какая скука

С больным сидеть и день и ночь,

Не отходя ни шагу прочь!

Какое низкое коварство

Полу-живого забавлять,

Ему подушки поправлять,

Печально подносить лекарство,

Вздыхать и думать про себя:

Когда же чорт возьмет тебя!”

La tetrapodia distica o giambica di Puškin è per sua natura svelta come la poesia di Omero o Orazio, tanto per esemplificare, e il metro greco e latino dei grandi era spesso composto da sei, sette e talvolta otto posizioni metriche (che semplificando chiamiamo “sillabe”). Normalmente si tratta di esametro dattilici seguiti da un pentametro dattilico, e nelle satire oraziane, che per spirito potrebbero essere prese a modello traduttivo dell’Onegin, vi sono versi settenari e ottonari. A Mecenate Sangue di antichi re, tu Mecenate, sostegno e dolce vanto dei miei giorni: c’è chi gode ad alzare con il cocchio la polvere di Olimpia, ed evitando la meta con le ruote incandescenti, fa sua la palma che gli dà la gloria e lo innalza agli dèi, re della terra. traduzione: Maecenas atavis edite regibus, o et praesidium et dulce decus meum: sunt quos curriculo pulverem Olympicum collegisse iuvat metaque fervidis evitata rotis palmaque nobilis terrarum dominos evehit ad deos;

(tratto da I quattro libri delle odi Orazio)

Ma l’ottonario rende sette-otto sillabe contro le otto-nove della tetrapodia, per cui è impossibile mantenere fedelmente la struttura strofica, ossia rispettare i quattordici versi dei sonetti puskiani. E poi l’ottonario latino è un verso sinceramente sorpassato, antico, desueto, se vogliamo metterla sul piano della percezione moderna italiana.


Per non parlare della poesia duecentesca in senari, settenari, ottonari e novenari dei giullari, dei madrigalisti, dei goliardi e dei trovatori, coloro che sia nelle corti sia nelle strade componevano della poesia licenziosa e satirica; o anche religiosa e moralista come quella di alcuni monaci poeti. Dal Laudario di Cortona a moltri altri laudari ritrovati, dai Carmina burana a Jacopone da Todi ecc. ecc.

Chi vol lo mondo desprezzare [Novenario: 2-4-8]sempre la morte dea pensare. [Novenario: (1)-4-8]

La morte è fera e dura e forte, [Novenario: 2-4-6-8]rompe mura e spezza porte: [1-3-5-7]ella è sì comune sorte, [(1)-3-5-7]che verun ne pò campare. [3-5-7]

(dal Laudario di Cortona)



In terra summus rex est hoc tempore nummus (…) Nummo venalis favet ordo pontificalis. Nummus in abbatum cameris retinet dominatum.

traduzione:

Sulla terra domina regina assoluta la pecunia. C…) vende denaro

per favori l’ordine del clero. Nelle casse i prelati

conservano il loro beneamati.


(dai Carmina Burana traduzione mia)

Poi arriva Dante e surclassa questa metrica “bizantina” fatta di quaternari e senari in alternanze cantate. Dante non scrive per essere cantato ma per essere letto o recitato con forza intellettuale, gnomica, riflessiva. E stabilisce la tradizione dell’endecasillabo giocato in terzine. L’ottonario, tuttavia, è duro a morire, e tornerà in auge anche nel ‘900 grazie a Carducci e Pascoli. Ma non stiamo qui a fare la storia dell’ottonario, quanto invece a cercare una soluzione per tradurre la svelta tetrapodia, e perciò vagliamo diverse possibilità.

Questo è un famoso distico decasillabo del Manzoni. Il decasillabo è simile all’ottonario. S’ode| a |des|tra| uno |squil|lo| di | trom| ba a| si|nis|tra | ris|pon|de |uno| squil|lo Ma come potete notare, il decasillabo è strano, oltre che difficile per il traduttore in quanto frasi bene divisibili in dieci sillabe in italiano non si prestano, sono poche. Inoltre, parlando ritmicamente, non è ancora svelto come dev’essere.

Il problema della modernità e della tradizionalità del verso non è comunque scontato e il traduttore, che opera per l’editore ma anche per noi, deve porselo. Puškin non è Omero né Orazio, né Jacopone da Todi né un giullare, egli è nato nel 1799 ed è quasi contemporaneo della modernissima Emily Dickinson; modernissima non solo per ispirazione ma anche per libertà metrica, stile, invenzioni e licenze (vedi i trattini di congiunzione che non congiungono, i versi sbilenchi, le rime irregolari, etc.).

Ma il russo non è meno moderno, se a trent’anni d’età compone l’Onegin. Al colmo della sua giovinezza, esattamente nel 1830, quando Emily Dickinson nasce.

Dunque perché non ricorrere al verso libero per essere moderni?

No. Andremmo a discapito della struttura, e quindi della poesia nel suo respiro! Immaginiamo cosa diventerebbe questo edificio metrico così precisamente sonante per mezzo della tatrapodia, fatto di cadenze e rime.

Il primo nemico del verso libero non è la rima, ma la cadenza, la ritmicità regolare, ed è proprio questa ritmicità ad aver spinto Puškin nelle braccia della tatrapodia.

Puškin non è un poeta da verso libero, ma è sia moderno sia tradizionalista.

Secondo tradizione, però, i poeti italiani usano l’endecasillabo, anzi: dal dantesco 1300 in poi non hanno mai smesso e ancora oggi conosco chi lo usa volentieri o vorrebbe abbandonarlo ma proprio non riesce (come mi scrive in una email il poeta Davide Nota, che è nato nel 1981.)

Potrei aggiungere che l’endecasillabo riesce ad essere tradizionale e moderno come può darsi solo in un Paese archeologico, retrogrado, reazionario e refrattario al cambiamento come l’Italia di oggi.

E non possiamo tradurre la poesia epica di Puškin nella poesia epica di Dante.

Nel |mez|zo| del |cam|mìn |di |nos|tra |vi|ta

mi | ri|tro|vái | per| u|na | sel|va os|cú|ra

La lattaia finnica ne sarebbe inevitabilmente rallentata, lei che invece va spedita coi suoi stivali , nel cammin di sua vita , sulla scrocchiante neve russa.

Il latte fresco saebbe presto yogurt.

I versi di Puškin sono brevi, agili, e il traduttore deve stare attento, la forzatura in un metro di undici sillabe potrebbe rivelarsi un crimine. E noi lettori ne saremmo complici.

Lo Gatto (Napoli 1890-Roma 1983) nel 1925 traduce Evgenij Onegin in versi liberi. Fu forse la sua giovinezza (allora era trentenne come lo fu Puškin quando la scrisse), o fu Puškin stesso a consigliarlo in questo senso? Quella giovinezza che è naturalmente vicina alla freschezza e alla vitalità del testo – ma poi, in una successiva edizione, da buon italiano fedele alla tradizione nel senso retrogrado, egli usa l’endecasillabo (proprio l’endecasillabo!) : Di principi onestissimi, mio zio, or che giace ammalato per davvero, fa sì che lo rispetti infine anch’io; e non poteva aver miglior pensiero; esempio agli altri ed ammaestramento: ma quale noia, o Dio, quale tormento ad un infermo muoversi d’intorno, senza mai allontanarsi, e notte e giorno! Oh, quale ipocrisia, quale meschina perfidia divertire un moribondo, aggiustare i guanciali a un gemebondo, con faccia triste dar la medicina, sospirare e pensar fra sé: che guai! quando all’inferno dunque te n’andrai?


Lo Gatto, traduzione del 1937


La casa editrice Quodlibet, che oggi ristampa l’Onegin nella traduzione endecasillabica di Lo Gatto è tuttavia molto fiera nel presentare il suo libro :


“Questa che presentiamo è la più bella traduzione finora fatta in italiano. Ettore Lo Gatto ha raggiunto con essa quella leggerezza, musicalità e naturalità così vicina alla lingua parlata per cui è celebre Puškin. Il verso novenario giambico russo è restituito nell’endecasillabo regolare italiano, che è il verso più simile per capacità narrativa; ed è mantenuto lo stesso schema di rime dell’originale, cosa importantissima per godere il giro ritmico, la facile leggibilità e l’incanto del racconto.”

Questa è invece la traduzione (in prosa) di Bazzarelli, anno 1960 :

Mio zio, uomo dei più onesti principii, quando non per celia si

ammalò, seppe farsi rispettare, e non poteva avere una migliore

idea. Il suo esempio è insegnamento per gli altri; ma, Dio mio,

che noia starsene giorno e notte con un malato, senza

allontanarsi neppur d’un passo! E che bassa perfidia far

divertire uno che è mezzo morto, rassettargli i guanciali,

porgergli la medicina con volto triste, sospirare e pensare fra sé:

ma il diavolo quando ti porterà via?

E questa è la traduzione (in novenari ) di Giovanni Giudici, anno 1975 :

Mio zio così preciso e retto, Or che sul serio s’è ammalato, Si è fatto portare rispetto E proprio il meglio ha escogitato! Il suo esempio sia di lezione: Ma, Dio mio, quale afflizione Notte e dì un malato vegliare Mai un passo potendo fare! E quale perfidia meschina Già mezzomorto vezzeggiarlo, Sui cuscini accomodarlo, Dargli mesto la medicina, Sospirando e pensando fra te. Ti porti il diavolo con sé!”

Come vi sembra infine la traduzione di Giudici? Lascio a voi lettori il giudizio. E spero che questa disamina servirà a qualcuno, oltre che al mio piacere di porre problemi.

Poetainazione

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Questi versi nascono da un episodio avvenuto qualche giorno fa.

Dei ventenni già noti alle mie finestre,

facevano il solito strafottente e prolungato rumore a tarda notte.

Siamo dunque finiti in una lite dalla finestra alla strada,

là dove la protesta è finita nella minaccia di “darmi un’accettata…

un giorno di questi, se mi trovano da solo”.

Uno di loro mi ha anche mostrato il coltello.






La non-vita

osso gettato dall’alto

bacile di piscio

che da un misero potere

a occhi vuoti di ventenni

e bocche cariche di rumori

in sporco avanzo dialettale

ha nutrito romani senza luogo

in questa Roma che non è!

Ragazzi

privi d’ogni proprietà di forza e bellezza,

se la sola forza, la sola bellezza che conta,

ormai io so, vengono dal possesso di sé,

dei propri occhi non ciechi.

E se nel pieno dei nostri occhi non c’è

magia di sogni, ragione d’idee

– sole forze che rendono vita la vita,

realtà la realtà – allora è la non-vita,

la non-realtà questo tutto non più vero.

La comitiva si raduna sotto le finestre,

ma la strada è vuota

(la strada che non è più palestra).

“Siamo tanti”, si dicono fieri i ventenni,

e sono tanti in questa Roma,

ma Roma è deserta.

Un avanzo d’ossa da cani

e un bacile di dolciastro piscio

dall’alto ha nutrito romani

al vezzo di quel Romanzo Criminale

di cui sono carne queste ombre.

Ed io, male incarnato nella vita,

anch’io non sono più nel mondo

se stento ancora qualcosa di vivo;

magro autore della mia forma,

fuori dai piani sovrastanti

dove si scrivono certi Romanzi

e da questa televisiva vezzosa filiale

di vicoli sottostanti.

Non telespettatore mendicante

non ansioso padrone d’oggetti

non bevitore ruttante

non ricettore di precetti,

disteso su questo letto come esule

nella casa di cui sono proprietario;

io più buio di questa oscurità

e del sabato dove i ventenni,

con sporca morte in miseri cuori,

parlano di festa, e festa è

se comunque s’accendono, più di me,

divorando come bestie l’osso,

leccando nel bacile.

Allogati nella trama del Romanzo Ufficiale

così bene che non useranno più le mani

ma il coltello, dicono,

per uccidere me, o i loro coetanei,

in questo giorno di festa

che credono essere loro.

Dunque, che più niente sia loro ecco la prova!

Non i loro amici, così turpi soci,

non i loro funerei giorni festosi,

mentre mi scrutano feroci

e con occhi che non vedono

con nervi che non controllano

poiché non ne hanno proprietà,

scendono in massa, da romani,

in questo sabato di precetto

da nere case a nessuna città.

Eppure tutti noi siamo per essere,

tutti noi dipinti per dipingere noi stessi

in questa città che un tempo sosteneva da sé

ogni impossibile sogno, ogni possibile realtà;

e fu così – ecco un’altra prova – che venni

in questa Roma popolare, sedici anni fa,

e crebbi qui la mia dimora come un ragno,

attaccato ad essa in modo oscuro e beato,

in questo rione dove bene coincidevano,

già oltre il mio cuore, Sogno e Realtà.

Ma la miseria della non-vita

ha poi fatto il suo corso, e qui,

dall’alto guidata, certo,

ma anche dal basso accettata;

avanzo dei piani alti, sì,

ma anche dei fedeli semi-interrati,

è diventata feroce e immonda

proprio perché non diversa, non strana

a chi quaggiù era ancora umano.

Pastura da cani, dolce urina

quella non-vita con muscoli falsi

che ovunque oggi ci abbraccia.

E la natura popolare

che nella dignitosa povertà

offuscava ogni potere e portava

la sua cultura d’essere, ha perso

così nel tempo i suoi diversi passi :

gli scherzi, con cui si davano i dissensi,

gli urli, che davano liberazioni,

e le serenate, che fermavano le strade

senza replicare i televisivi “talenti”

ma cantando ancora “barcaroli”, “pupi biondi”

e stornelli da romana bocca sopravvivente.

Nemmeno due decenni e il potere

ha dato qui i suoi replicanti più tristi,

quei ritornelli d’un nero o allegro replicare

che non sono una croce portata

da romani che ridono perché violentati

o urlano perché impotenti, come sempre,

secondo i canoni antichi della bestemmia,

no, fu la morte di Sogno-Realtà,

fu il canone del Non-essere-più,

ed ecco la carne muta di questi figli.

Questa cricca di madri e padri ne sono la prova!

Somiglianti a brutti amici o strani fratelli,

ecco che adempiono muti, presumendo di educarli,

a prassi canoniche con fedeltà da sudditi:

il non-essere, da cui nessun altro essere deriva,

il non vedere, da cui canonica cecità discende,

il non-dire, che tramandasi in pragmatico mutismo.

Priva pure dell’amore impotente che fu dei poveri

cosa resta allora di quest’ombra vanitosa?

Solo il sacrificio dei figli, la carne muta.

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