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L’Italia nel senso della morte umana


L’Italia è, nel senso della morte umana, uno dei paesi più a rischio, dato che ciò che l’ha sempre contraddistinta nel mondo è stato proprio il tasso di umanità e di vitalità, contro le più razionali e intellettuali Germania e Francia, tanto per fare degli esempi. Noi non abbiamo avuto i Descartes, i Voltaire, i Rousseau, così come non abbiamo avuto i Kant, i Marx e i Freud, ma le nostre rivoluzioni sono state soprattutto nella forza di saper creare vita. Una vita irradiata da migliaia di sentimenti dalle infinite sfumature, che hanno prodotto speranze, ansie di giustizia, di riscatto, come nel dopoguerra. E dunque hanno prodotto una delle migliori civiltà, in quegli anni di ricostruzione. Una civiltà irrorata da spiriti capaci, cuori gonfi di amore per il popolo, intellettuali dolcissimi. Da Vittorio De Sica a Fellini, da Sciascia a Pasolini, da Elsa Morante a Calvino. Un popolo che pur nel disincanto si lasciava incantare e guidare da questi maestri, sebbene la maggioranza sia sempre stata molto attratta dalla retorica del potere.

Oggi c’è Camilleri, non c’è Sciascia. I De Luca partecipano a Le invasioni barbariche e non sono indignati e amareggiati neanche se il Paese crolla davanti ai loro occhi. La loro calma vita tra le macerie è comunque una vita di scrittori ben ricompensati con onori. I poeti affermati sono tutti puri come dei piccoli Petrarca e compiono anche la prolusione ufficiale al tricolore, se li fanno senatori.

E tutto questo mentre il Paese crolla e la guerra incombe. I missili sono silenziosi ma colpiscono ancora meglio le nostre menti energicamente putride. Il pus invade le televisioni, i giornali, e ormai sta sporcando qui e là anche internet. Le tracce di sangue che duemila anni fa imbevevano le pietre di travertino del Colosseo oggi non sono più visibili, ma la propaganda del potere è dappertutto e ci costringe allo spettacolo della nostra morte, ognuno secondo le proprie abilità. Chi si annienta davanti al televisore, chi nella droga, chi nel fitness, chi nei social network, chi nell’eros, chi nel lavoro, e spesso queste dimensioni coincidono tipicamente, secondo quel canone di unidimensionalità conformista suppurato naturalmente da una civiltà costruita sulla morte, fabbrica di morti. Chi fischietta o canticchia più per le nostre vie? Eppure non ci troviamo nelle metropoli USA, o a Berlino, o in altri paesi simili dove non conoscono la parola “vicolo” e non conoscono la parola “passeggiare”. Se a Berlino dici che vai a fare una “spaziergang”, che sul vocabolario tedesco c’è e io ricordo che nell’anno 2007 me ne sono avvalso spesso ( io che amo passeggiare per le città sensualmente e arrogantemente, alla maniera del flaneur, del bohémien, e cioè secondo un planare che è come un baciare coi piedi, infilando gli occhi ovunque, nei portoni, nei bar, nelle vetrine, e salutando le persone, fischiettando alle strade, prendendo la città come viene, con il destino a farmi da cicerone, etc. ) – ebbene difficilmente troverete un tedesco che comprenderà questa sua parola. Piuttosto ti risponderanno: sí ma dove vuoi andare? Quale obiettivo hai? A Berlino non ci sono vicoli, non c’è oscurità secolare, non c’è incrostazione storica, tutto è sempre troppo cronistico, corrente, moderno, e dunque privo di riferimenti (valori). Mentre l’Italia è piena di vicoli fatti per fischiettare. Ed è piena di croste, come le chiamano gli addetti alla rimozione di certe immondizie. Molto più che in altri paesi in Italia gli elementi della storia, e cioè le domande e le risposte su “chi siamo”, si manifestano all’improvviso, imponendosi alla nostra osservazione e impegnandoci, potenzialmente, di pensiero. Ovviamente è un pensiero che non c’è, che non viene concepito o non viene svolto dagli italiani medi, i quali sono una maggioranza di idioti, cioè sono letteralmente incapaci di pensare o lasciar crescere un pensiero. Il quale, se non altro, è potenzialmente quello di svolgere una considerazione di rsponsabilità sulla nostra storia, dunque su chi siamo. Seguire tale pensiero significa ovviamente iniziare a conoscere, prendere in mano un libro, due, tre, e vuole dire quindi passare ore e ore in lettura, magari andare in biblioteca, prendere appunti, trascrivere, fotocopiare, etc. Molto probabilmente, a un certo punto, chi è medio potrebbe diventare migliore, con una mente in espansione e non in atrofisia, con una coscienza sempre più sensibile, una percezione sempre più capace. Solo su questa base si possono sviluppare un buon tasso di umanità e una buona salute mentale, mentre nella privazione di strumenti conoscitivi e autoconoscitivi l’uomo medio è come un corpo privo di nutrimenti essenziali. Ed ecco che, su questa base, un popolo sempre più vero, umano, capace e mentalmente stabile assumerebbe il posto di questa borghesia media in via di decomposizione di cui un po’ tutti facciamo parte (essendo virale). Penso questo rapportando gli italiani a popoli quali i romeni, i bulgari, i croati e i bosniaci che ho conosciuto da molto vicino. Questi popoli, visti sorprattutto nei loro paesi d’origine, manifestano ancora una base umana eccellente. Il tasso di cultura scolastica e generale è discreto, rispetto a un tasso di depressione, droghe e sucidio quasi inesistenti. La nostra borghesia media è invece una pustola di ignoranza ottenuta con i crediti e con i punti, una crosta di immondizie televisive stratificata nei decenni della tv prima commerciale e poi pubblica, un bubbone di movida suppurante per i ventenni e per i giovani cinquantenni; è alcool fluente per distrarsi dal disimpegno, è sale bingo per i poveri, per gli ultimi operai astiosi e indebitati per stare al passo con il consumismo. E poi ci sono i tanti provincialismi e campanilismi, tutta una secrezione di odio, chiusura mentale, razzismo sempre più infetta e contagiosa. Ma lo è soprattutto in questo Paese, dato che altrove i connazionali non si scannano come facciamo noi. Ma anche questo partecipa di quella mancanza di strumenti-nutrimenti che dicevamo prima e che nel tempo ha trasformato l’ignoranza in una perversione tutta italiana, con tratti tipici (li trattiamo in questo blog). Perversione è l’ignoranza borghese nutrita di cattiveria e idiozia da decenni. Su questa base bruciata, dove non c’è pensiero né cuore, quale Italia d’arte, quali virtù e talenti e geni possono germogliare? Penso alle grandi cose del passato che pure nel più piccolo centro di questo Ex Grande Paese affiorano all’improvviso al nostro passaggio. Le tante colonne annerite sotto i portici ottocenteschi, gli acquedotti di pozzolana rosa che al tramonto s’incendiano e di mattina sembrano trasparenti come acqua. E penso a miliardi di palazzi brulicanti di statue, di decori sottili, paraste, volute, edicole, rosoni… quanti nomi di elementi che sono lì per noi ma noi non ne sappiamo niente o pochissimo. E non c’è bisogno di entrare in una chiesa per sapere quale ricchezza di strumenti-nutrimenti abbiamo tra le mani, quanti pittori e scultori hanno dipinto e scolpito per noi, pensando a noi. Ed io non possono non pensare a loro. In questo momento sto pensando a due beffardi telamoni napoletani, due omoni muscolosi ma anneriti dalle croste che sulla via che spacca Napoli ci prendono in giro sorreggendo per finta due o tre piani di palazzo; e penso a quella fontanella muraria che in un vicolo di Roma sputa un cannellino d’acqua da una faccia allegra. Ma la lista della nostra memoria è lunga e ognuno di noi può aggiungervi elementi. E penso a un frammento marmoreo che pulsa da sotto la calce in muro di Scurcola Marsicana. Dal muro più misero e scabro di un paesello fantasma, quel filo di marmo che traspare nella calce, seppure per una ragione ignota, sta tuttavia nella Storia. Ed è così che la sua realtà ci impone, con la sua sola presenza, un pensiero cosciente, responsabile. Ma che non può essere solo un pensiero fugace, no, io sento che quel frammento di storia ci chiede un gesto permanente. Per il valore stesso delle cose, per la loro realtà, per la loro poesia, ci viene chiesta un’azione di valore, e, in un certo senso, di poesia. E’ questa la grandezza italiana. Un fatto crostoso, che portiamo senza volerlo sulla pelle. I restauratori le chiamano “croste nere” e le rimuovono con bisturi e impacchi, buttando tutto nell’oblio della loro azione priva di storicismo (Cesare Brandi, il maestro del restauro italiano, sul piano storicistico era una nullità e sul piano dell’azione un puro teorico). I restauratori si professano rispettosi di una patina storica che ovviamente non è possibile rispettare agendo con il fine di “restaurare”, che significa riportare un oggetto all’integrità originale. Quella crosta di marmo, sale, sole, pioggia e immondizia non è lì casualmente, e non è precisamente un deposito sulla pelle d’Italia, ma è l’Italia stessa, e non c’è integrità né originalità fuori da questa. Essa è l‘acido delle nostre immondizie ma anche il valore dei decenni, è l’italiano della pioggia ma è anche l‘italiano del sole, quello che ama godere. L’acido delle vite medie è una sostanza simile a questo miscuglio, a cui neanche il cuore dei telamoni più furbi e indifferenti si salverà. L’acido delle nostre immondizie, il sale delle nostre droghe, i gas dei mass media, le scorie dei politicanti, le polveri del consumismo, tutta una vita inquinata, ed è questo che dà colore alla crosta. La nostra responsabilità è in questa teoria e in questa azione e senza assumerla si resta annichiliti. Ma come dobbiamo intervenire?

Vedo le nostre città sovrappopolate e i nostri paesi svuotati, e vedo i villaggi coi fienili della Romania che amo, quella non cittadina, dove i cavalli tornano alla stalla da soli. E vedo le belle città del Friuli, restaurate e verniciate come Pordenone, i cui fiumi però sono sporchi e cupi contro l’imperfetta igiene estetica di quei piccoli centri della Bosnia come Visegrad, i cui fiumi sono limpidi e magici. Vedo quindi l’ospitale Croazia dove abbiamo dormito (io e un mio amico) nel letto del proprietario, contro quell’Italia criminale che ovunque grida o sottace la stessa fobia anti-immigrazione (da Libero che titola”Islamici bastardi!” a Panorama che titola “Non passa lo straniero”). E vedo la Bulgaria dei giocatori di carte e della marmellata di rose, contro questa Italia del burraco on line e dei “quattro salti in padella”. Tuttavia, qui, se c’è, c’è un manipolo di pescatori siciliani che salvano i naufraghi immigrati e li accolgono in casa, contro l’Italia delle leggi anti-immigrazione. Qui, se c’è, c’è un romano che fischietta in modo così potente che sembra risarcire la mancanza degli altri. E quel napoletano che ancora pensa al teatro; e forse, sempre se c’è, c’è anche un poeta nuovo, da qualche parte, che sta mettendo in poesia tutto questo, e così affila i coltelli che serviranno. In questa Italia c’è sicuramente qualcuno che ancora la fa splendere, nei bassifondi della realtà, nella storia dei piccoli gesti, nell’azione carica di umanità, contro la stasi che ovunque domina, contro il genocidio silenzioso che si consuma nel Grande Stagno. Una qualche traccia d’Italia, se c’è, è nel sangue nuovo dell’immigrato sorridente e calmo, di suo figlio che cresce come un nuovo italiano; e a volte questo nuovo italiano è anche un nuovo poeta (basta vedere quanti “scrittori migranti” stampano stabilmente in Italia e di conseguenza rifiutano la definizione qui virgolettata). E sul piano della poesia italiana non scritta ma incarnata è il giovane immigrato puro che dà se stesso nel cuore d’Italia. Vedo l’arabo nella frutteria (il mago fruttarolo), vedo il bangladese dietro le fette di cocomero o dietro la caldana delle castagne (poesia tutta romana). continua nel post successivo

All’Italia Iª parte



All’Italia IIª parte


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