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La lingua della vita e dell’arte (l’affermato cinema d’oggi)

Aggiornamento: 26 mar 2020

L'idea di fondo c'è in ogni cosa, è la sorgente. La lingua stessa nasce dall'idea pura di comunicare.  Un'idea pura e semplice, perché dal puro e semplice nasce tutto. Poi c'è l'idea d'oggi, e da questa l'arte d'oggi, la comunicazione odierna, ecc.  Insomma: dall'idea pura e semplice come l'acqua all'idea distorta e malata. Nella seconda riconosco molti artisti e intellettuali d'oggi.  Questa idea distorta, questo dolore di fondo, si pone sempre più spesso come idea originaria. Ma, sia chiaro, non intendo i Godard di ieri o le Alice Ashenbach  odierne. Non parlo dell'oscurità poetica, né della vocazione simbolista, ma di quello che si può definire l'ultimo approdo del vecchio razionalismo. Dove però alla parola approdo dobbiamo sostituire la già detta parola "deriva", cioè il caos, il non-approdo totale. Ma anche il termine razionalismo è in realtà stretto, in questa realtà ribaltata e caotica. Qui non c'entrano né Platone né Bacone né Galileo. Il vecchio procedere razionale ed empirico qui non avviene secondo enunciati e premesse logiche, ma si dà nell'illogico, nell'irrazionale, nell'inverosimile, nell'assurdo, ed, appunto, nel disturbo mentale. Lars Von Trier, David Linch e Tarantino, pur con i distinguo da fare, sono i tre registi a cui penso. Forse i tre migliori esponenti di questo cinema mostruoso. Rappresentanti di una deriva del pensiero (applicato al cinema), comunicativa e artistica alquanto nuova. Non ravviso in loro nemmeno il vecchio serpente del solipsismo borghese. Oggi siamo all'intellettuale chiuso in sé, colui/colei che cavalca sull'asinello stanco delle proprie manie credendolo un cavallo di razza. Intellettuali per modo di dire, poiché se non v'è coscienza non v'è nemmeno la più banale e ingenua sperimentazione (empirismo). E la coscienza di sé e della propria opera qui non ha luogo. Eppure questi signori sono i nostri moderni Michelangelo, Leonardo e Raffaello. Da gente simile discendono quei rinomati quadri dal formato gigantesco con appena tre puntini di colore su tinte neutre. Ma i teleri di Tintoretto, seppure lasciati nell'indefinito, o nel non-finito (come suol dirsi), esprimevano una ragione non malata né chiusa né avulsa né solipsista anche quando il Maestro si distraeva dal verosimile e percorreva i meandri del mondo interiore. Un mondo interiore che corrispondeva sempre a una linea chiara, a una cifra tonda, a un'idea pura e semplice, tanto per tornare all'inizio. I dubbi e i marasmi, le passioni sconvolgenti e gli slanci folli appartenevano comunque a una persona sana. Pur nella sua esplosione del mondo, Francis Bacon restava aggrappato al mondo come farebbe un maestro di tai chi. I piedi sono ben saldi, Yang è ben raccolto e pesante nelle gambe d'acciaio... e dunque il respiro dell'intelletto (Qi) può scorrere. Yin e Yang, ricordiamolo, sono come luna e sole, femminile e maschile, ecc., ovvero i due opposti dalla cui armonia scaturisce la salute della persona. Probabilmente questa idea cinese pura e semplice è estensibile anche agli animali, che nello stesso equilibrio tra azione corporea e azione interiore (fosse anche il minimo istinto o il minimo sogno di pace!), fondano la loro esistenza. "Le bond sourd de la bete feroce" (Il balzo sordo della bestia feroce), scriveva l'oscurissimo Rimbaud pensando a un felino. In effetti: riuscire a produrre un ampio salto predatore senza emettere alcun suono, non è forse come il frutto di un lungo empirismo? Che in arte si chiama "sperimentazione".  L'equilibrio tra il corpo e l'intenzione è perfetto. Tra Yin, che è la crudeltà razionale dell'intenzione assalitrice, e Yang, che è  muscolarità, positività dell'azione fisica, se l'armonia è buona ecco che il gatto riesce a predare il geco. Ma anche il geco potrebbe trovarsi, in quel momento, al colmo di un'anima equilibrata, e quindi sfuggire con abilità corporea fusa al suo contrario: la testa che sogna la pace.  Quale pace, quale armonia, quale sogno illuminano l'intelletto di questi intellettuali di cui due sono americani e uno è norvegese? I loro corpi li conosciamo, non abbiamo bisogno di vederli nudi come gechi o gatti per immaginarli. Se il corpo non riesce a predare un'idea pura e semplice è forse perché questa idea non c'è. O forse perché non è in grado, essendo pigro o non allenato. Secondo il principio daoista cinese la pigrizia e la goffaggine del corpo sempre corrispondono, nel campo mentale, alla pigrizia e alla goffaggine della mente. Sono due opposti uguali, che sempre generano un blocco. Se le gambe sono goffe la mente non può essere fresca. Anche i romani antichi predicavano un principio simile quando ammonivano: mens sana in corpore sano. Ma questo non significa che un eccellente atleta sia necessariamente un eccellente intellettuale. Né il contrario. Colui o colei avente un certo quoziente d'intelligenza non sarà automaticamente un certo atleta.  Ecco che allora ci ritroviamo ammutoliti, al cospetto di tanta immondizia. Tanti films senza capo né coda; e se questi sono l'opera degli odierni Maestri, allora moriamo dentro, o corriamo a scrivere questa riflessione. Nel mio caso vi è della morte anche nella più energica vitalità che vivo ogni volta che mi calo nella scrittura. Questo blog non poteva non contenere la parola "morte". Ma qui la morte non è solo italiana - del nostro Paese e quindi del nostro cinema, della nostra arte e della nostra comunicazione - ma è superbamente globale.  La morte è oggi un particolare atteggiamento. Un atteggiamento dei nostri tempi. Un po' come un'usanza, una moda. Un po' come l'avere tutti il telefono cellulare in tasca. E' una sorta di possesso di massa vissuto in maniera perfettamente massiva. Chi il cellulare lo usa come telefono fisso, quella è una persona veramente diversa. La pressione culturale e sociale non l'ha scalfita, almeno per quanto riguarda quel possesso da posseduti. Bisogna poi vedere se per comprare anche solo un tozzo di pane usa la carta di credito, come un qualsiasi complice del Potere Bancario.  Bisognerà poi sottoporlo a tutti gli altri test sulla sua complicità e compromissione di sé con questa Morte Organizzata, per vedere quale sia la sua precisa posizione.  Tu che sei l'intellettuale del momento (acclamato a Venezia e oggetto dei Cahiers du cinema) , se vuoi presentare un nuovo film - che ovviamente deve scandalizzare! -, puoi far finta di esser brillante, celando così tutta la tua intelligenza in crisi o il tuo disturbo psichico (sembra che Von Trier sia affetto da depressione cronica), oppure puoi urlare al mondo il tuo dolore. Qual dolore cui accennavo prima, apposta senza spiegarlo proprio per restare con un piede nell'oscurità. D'altronde, scrivere è soprattutto non dire, e non è mai parlare. Poco fa sono incappato nel sito web di un artista, anche insegnante di scultura, insomma: un professore, un intellettualoide  alla maniera qui considerata e, cosa ho visto? Questo tipo che, con una sigaretta, appone occhi e naso al profilo di una macchia d'intonaco su un muro scrostato. Quella macchia assume così un volto, e quindi gli fanno i complimenti, chiamandolo "professore". Ecco: con un gesto così infantile (malato d'infantilismo), la deriva del pensiero si compie. Il professore interviene su quel muro come farebbe chiunque, e già molti lo fanno con penne, pennarelli e spray, finché quella crosta intonsa - che sembrava essere là proprio per farsi disegnare, già a forma di volto - perde così la sua perfetta e fantastica verginità. Nessuno può più ideare su quella superficie vuota perché vuota non è più. Occhi e naso banalissimi, s'intende, non parliamo certo di un capolavoro. Se li avessi disegnati Leonardo o Ingres o Dalì chissà cosa ne sarebbe uscito fuori! Ma anche se li avesse disegnati un perfetto sconosciuto ricco però di una qualche forza, l'avrei riconosciuto come un dono fatto a noi tutti, e non come un ladrocinio. Basta usare quegli espedienti che fino a ieri ripudiavi, e puoi essere uno scandaloso Von Trier. E questo è accaduto propriamente nel film La casa di Jack. Quei "dogmi" che rendevano interessante e geniale la sperimentazione del norvegese sono caduti tutti nell'abiura più schifosa, che è quella non voluta, e cioè di una mente offuscata. Ma un intellettuale non può permettersi una mente offuscata. E nemmeno l'ultimo regista. No, caro mio, tu hai ceduto alla logica di Produzione. Alla Morte di tutto. Non hai solo ceduto alla tua crisi, da cui non ti sei fatto curare mentre ne avresti l'obbligo civile in quanto regista condizionante. Mio nipote di sedici anni, grande cultore di cinema, non fa che apprezzare questo pazzo. E ciò è comprensibile: chi spaccherebbe il bellissimo volto di Uma Turman con un crik? Ma, oltre alla boutade cinematografica, che può piacere all'adolescente mio nipote in quanto scandalo e ironia, si dica pure che spesso gli adolescenti odierni sono facilmente attratti dalla violenza, che li esalta quasi come i post-fascisti che ci circondano. E' l'intrinseco fascismo della Produzione commerciale, che non a caso è spesso costituita da fascisti (fossero pure meri fascisti da merci). Caro regista ex-dogmatico, pienamente americaneggiante in questo pieno fascismo americano, non ti domandare perché sei diventato così, non curare la tua depressione, non sentirti obbligato verso di noi... concentrati solo sul tuo ombelico, e procedi pure sentendoti sempre e comunque un cavallo di razza nonostante la tua trasformazione in mulo. Tu potrai sentirti ancora in vigore, e dunque in auge, come pure il tuo bieco recensore e questo tuo pubblico che non è brillante e quindi si scandalizzerà lo stesso. Questo che non è più il tuo pubblico d'un tempo. Oppure, se è lo stesso, ma con gusti triviali, è perché tu lo hai trasformato così, in combutta non voluta con altri mille intellettualoidi come te.  Il tuo dolore è oggi così talmente serio e inglobante che è difficile cernere i prodotti artistici non falsati e minati da questo tarlo, dai prodotti davvero intelligenti. Eppure io sono sicuro, nonostante possa essere anch'io un po' in crisi o un po' scombussolato da te, che la giovane Alice Aschenbach come pure Matteo Rovere (che non ha ricevuto nemmeno una menzione per Primo re, al tristissimo premio David di Donatello) sono dei registi giovani molto più validi di te.  Vedo in questo momento la realtà venirmi incontro. La realtà che è fuori da questa pagina elettronica e che comunque, come blog della morte, mai troppo se ne discosta. Vedo i blocchi dei caseggiati periferici dove ho smesso di cercare il popolo, e vedo i blocchi nazionalistici, che animano ormai tutta europa (scrivo in minuscolo ciò che è minuscolo). Perfino il partito europeo dei Verdi conta al suo interno diversi "blocchi nazionalistici" - così amano chiamarsi. E qui il nostro ministro Salvini non fa che ripetere tale logica bloccante, o "blocchista". Nazionalismo revanchista che è molto peggio del vecchio nazionalismo fascista, se, infatti, questa ideologia non depresse né spense ma anzi attivò i grandi intellettuali che furono poeti, filosofi e registi. Il dopoguerra poté nutrirsi della guerra, potrei dire. ma non vorrei offendere la Memoria.  Da adolescente non avrei mai potuto essere ricoperto di tatuaggi, né avrei potuto mai far parte di una babygang, come invece sta succedendo oggi in Italia. Molti minori italiani sono ormai dei criminali efferatissimi. Anche assassini e stupratori. Noi invece camminavamo con menti lucide ed eravamo pochi amici fraterni ma non soci, o eravamo comitive estive ampie ma non gang. Scherzavamo molto, nei modi più innocenti, per tutti gli anni '80. Eravamo una media borghesia, ma anche i figli di papà che ho conosciuto non erano dei mostri. I fatti del Circeo erano casi ancora sporadici e circondati da un'aura di incomprensibilità, d'irrealtà. Ballavamo la breakdance. Io stesso ho preso lezioni in una palestra che era lontanissima da casa mia, quando il rap non era una passerella italiana all'ultima moda, né era solo gangster americani. E comunque, perfino i rappers più violenti si ispiravano ai poeti e si facevano amare più per la loro semplicità e freschezza che per la loro prepotenza e cattiveria. Oggi leggo di due rappers romani appena arrestati (la notizia è proprio di oggi) per aver picchiato dei loro fans e un bangladese a scopo di rapina. Per farlo hanno indossato dei tirapugni.   La poesia era la luce. Ma era anche la muscolosa lingua della lotta di Pasolini. I pugni migliori li hanno tirati i poeti. Già all'età di tredici anni ne discutevamo con gli amici. Claudio leggeva molto, la sua cameretta era una biblioteca. Non potevo frenarmi dal rubargli dei libri, che poi riallogavo di nascosto. Era per me il tempo di Pasolini, Rimbaud, Garcia Lorca, Raphael Alberti, Machado, Penna; solo più tardi vennero Ginsberg, Bachmann, e infine Dickinson.  I palazzi non erano "blocchi" e i "blocchi nazionalisti" non c'erano. La Catalogna era tutt'uno con la Spagna. Il nazionalismo era ancora ridicolo, con i capelli dei naziskin e il linguaggio triviale dell'MSI. Nessuno aveva il coraggio di proclamarsi apertamente fascista, ma lo scriveva di nascosto sui muri. La realtà, tuttavia, era già molto malata. I palazzoni-serpentoni come Corviale, che poi ha assunto l'ideologia di destra. Deserti di cemento e di molte anime trascurate dalla Sinistra, che da neutre o appena qualunquiste diventavano sempre più nere. Sul serpente di Corviale infine vedemmo lo striscione di Alleanza Nazionale, che si presentava tuttavia con un leader educatissimo e non violento.  Non era ancora sbarcata nei porti italiani la violenza della Lega. Un misto di cattiveria, volgarità e machismo vomitevoli. Il vomito lo sentivamo bene noi poeti almeno quanto lo sentivano sulla pelle gli immigrati, verso cui l'insulto divenne troppo facile. Si costituirono pure delle "Ronde" a scopo di pulizia etnica o una cosa simile. L'unica razza accettata era quella del popolino norditaliano: piccoloborghesi da fabbrichetta.  Ma tale violenza ha fatto scuola, nel tempo, conquistando milioni di voti, più del fascismo mercantile dei vecchi capitalisti e della vecchia borghesia rampante, cui accennavo prima definendolo "fascismo di merce". Merce arrogante ed egoista, e per questi motivi anche fascinosa, che ci stava già inaridendo giorno dopo giorno fin dagli anni '60 (lo diceva Pasolini), con quel "boom economico" che ha stregato gli italiani. Poi sono venute le TV di Berlusconi, e il fascismo della merce è diventato più reale, intimo, antropologico. Le fantasie erotiche di un solo capitalista hanno modellato la sessualità di molti maschi. L'Italia, da patria di "santi, poeti e navigatori" è diventata un luogo di puttanieri, corrotti, ladri. Ma ancor peggio: un luogo ignoto, privo della sua identità vera ma con un senso nazionalistico sempre più arrogante, ipertrofico. Se la  vera nevrosi è una fissazione senza oggetto (mi si perdonino i miei vaghi ricordi di giovanili letture freudiane), ecco che l'Italia si gonfiava di nevrotici. E intanto i veri poeti si estinguevano, o portavano la loro povera pellaccia in tv, come  Alda Merini, per farsi prender in giro da quel piduista di Maurizio Costanzo.  Dopo la Merini e la Spaziani, ormai scartate da ogni luogo, la poesia fu rappresentata da un cianotico Elio Pecora - uno che si accontenta della sua rivistina pagata da poveri sognatori - e infine da gentaglia come Davide Rondoni, "il poeta di Salvini".  Tre semplici e pure idee fondavano la nostra identità, forse schematiche come sono i proverbi ma che tuttavia davano il senso di un'antichissima identità italiana popolare e rurale. In primis la religione, che era ampiamente e sinceramente sentita, un po' come ancora oggi in India, e che diffondeva quel cuore per cui poi diventammo famosi al mondo. Un cuore di persone buone, bendisposte, caritatevoli e accoglienti, e non egoiste e xenofobe. E fummo "poeti". Fu l'arte il nostro ulteriore vero riconoscimento nel mondo, almeno fino a quando il capitalismo non partorì il consumismo e poi l'omologazione in questo Consumare. E dato che l'arte è inconsumabile, la distruzione del valore stesso dell'arte fu automatica. L'arte vera implica sempre una visione non uniforme delle cose, e una messa in crisi positiva, e dunque reclama l'intelligenza e l' impegno della comprensione, e non la vanità e la depressione. Perciò la stessa gioia di vivere si è via via perduta, ed anche questa era una dote italica.  L'intelligenza e la vitalità che animavano la cultura - dagli scrittori ai registi fino pure ai giornalisti (che talvolta erano scrittori e anche poeti, vedi Alfonso Gatto) - sono state brutalmente rimpiazzate dal grigiore dei professori universitari alla Umberto Eco, alla Vattimo e alla Cacciari; e da scrittori posti sempre più in subordine rispetto alle altre categorie, seppur ancora letterariamente rispettabili.  Gli anni '90 e i primi anni del 2000 hanno visto in scena (nella TV normale) filosofi, critici d'arte, sociologi e altri professori di varie discipline. Questi hanno cantato inni al pensiero unico e al nichilismo, e hanno cantato l'individualismo e la frammentazione. Ricordo che un battaglione di sociologi - ogni sera ne spuntava uno diverso - ci parlava di anomia e atomismo, questi erano i termini, che ancora adesso restano patinati così com'erano di astrattezza e genericità. Del resto, come si può parlare di "anomia" - ovvero della morte dei valori di un'intera società - senza fare nomi e cognomi dei colpevoli? Venne quindi il tempo dei VIP, di una casta culturale che non interagiva mai con la popolazione. Politici, attori, cantanti, registi, professori... non li si incontrava mai nella vita cittadina. Mai partecipavano a un'assemblea pubblica, a un evento popolare, a una festa di quartiere. La frattura tra i "famosi" e la popolazione è forse uno dei dolori peggiori che avremmo dovuto trattare in versi, nel cinema e in ogni settore della comunicazione e dell'arte. Ma è anche una lama a doppio taglio, dato che gli artisti scomodi vengono tagliati fuori da ogni possibilità di emersione. Senza contatti con la "casta" non emerge nessuno. I poteri che creano questa situazione sono il Grande Capitalismo, le Società segrete, Le Chiese politiche, a cui si aggioga la Politica coi suoi fantocci e i Mass media coi suoi giornalisti e anchorman. La P2 mirava a un unico blocco costituito da due fazioni simili ma apparentemente alternative, e questo è avvenuto. Un unico blocco di potere (superati i due blocchi realmente contrapposti di America e Russia) che non ama essere disturbato, e cos'è peggio di un artista intelligente quando si tratta di disturbare qualcuno? La stupidità è al contempo una garanzia meglio dell'ignoranza, dato che l'ignorante può istruirsi e capire mentre l'idiota resta al palo, in balia di ogni influenza. Gli influencer già esistevano quando l'Italia veniva istupidita dai talk show e dai quiz.  Il giornalista Maurizio Costanzo lancia i suoi mostri, come Vittorio Sgarbi. Deride degli ingenui, esalta dei furbi, procura qualche scandalo.  La nostra grande poetessa Alda Merini, della grandezza di Emily Dickinson, è stata più volte irrisa su quel palco. Ma anche il furbo Carmelo Bene si è prestato a quello schifo.   Ma che senso ha farsi ascoltare in questo modo? Una parola che intrattiene non è nulla e nessuno la ricorderà. Eppure è questo genere di parole che il nostro Paese ha sviluppato. E chi meglio dei politici professionisti è abile in questo campo?  Oggi risentiamo moltissimo del verbalismo politico. Gli slogan sono uno dei più gravi nemici della ragione. Vi sono persone che si è affidano anima e corpo agli slogan, che a loro volta sono un prodotto del commercio.  Il nostro quoziente di stupidità è stato poi aggravato dai neo-comici demenziali, che sono un prodotto televisivo.  La RAI, seguendo l'esempio della comunicazione e dell'arte berlusconista, comincia a quindi a spogliare le ragazzine, e a "non essere più la RAI", come recitava uno dei suoi programmi. Finché è venuto il turno dei bambini, condotti in TV a fare le imitazioni, a dare se stessi per far fare audience a qualcuno.  Quando siamo arrivati alle Isole dei famosi io ho spento la televisione, e da allora non l'ho più accesa. Non posso quindi parlare degli ultimi atti di questo particolare declino dell'intelligenza, dell'identità e dell'umanità italiane perché da oltre dieci anni ne sono fuori.  Ma il problema della comunicazione e dell'arte distaccate dalla vita e dall'umanità è di portata internazionale. E torniamo quindi ai nostri registi e alle pure e semplici idee - di cui abbiamo bisogno per spazzare via tutta questa perdita di sé modellizzata dai Poteri riuniti.   Prendo solo come esempio Lars Von Trier, David Linch e Quentin Tarantino, perché tutti conoscono e possono quindi considerare i film di questi premiati registi. I quali, vedendoli, ci fanno domandare subito: qual è l'idea di fondo di Inland Empire? Qual è l'idea di fondo, pura e semplice, che ha portato Tarantino a concepire Le iene, oppure altri film violentissimi e splatter con quel tono da film serio che essi hanno? L'idea pura e semplice che anima La casa di Jack, qual è? Io vedo solo il mio stupore davanti alla violenza, al non senso e al vuoto. E allora penso a Stallone, a quei film che i critici d'arte non considerano nemmeno. Rambo e Rocky, infatti, non sono pezzi d'arte, ma almeno il regista non si atteggia come un balordo intellettualoide, anzi: le sue interviste al The Letterman Show ci rivelano un uomo che non si prende sul serio, un big boy ma con il talento di chi ha saputo girare "Stayng alive".  Io credo che questi seriosi registi super-premiati siano tutti animati dalla volontà di stupire, più che provocare. Milioni di dollari per uno stupore facile. Ma più profondamente direi che la loro volontà è quella di esaltare un aspetto della vita come la violenza o il cinismo dell’uomo contemporaneo assurgendolo al grado di valore artistico o intellettuale. Come se il colpo di un crik in faccia potesse tradursi in un bene cinematografico e collettivo, in un valore o in un qualche piacere estetico. Siamo all'estetica forzata, come quell'estetica che una società come questa - dominata dai chirurghi plastici - a forza di pubblicità e messaggi sub-liminari che trattano cellulite, rughe, curve, peli e modelle anoressiche ci istilla nel cervello.  I nasi e i seni delle donne, come i films, sono cose enormemente importanti. Per questo mi offende e mi adira vedere quali "prodotti" di nasi e seni finti, di film e critici superficiali abbiamo di fronte.  Superficiali e anche mediocri. Io parlo degli ultimi Von Trier (da Melancolia alla Casa di Jack) e David Linck (da Inland Empire all'ultima fiction televisiva), escludendo Tarantino, che non ha mai avuto nulla da dire e per quest'ultimo provo quasi antipatia, in quanto è per me un altro violento represso in mondo violento. Ed è un sopravvalutato. Tuttavia rientra di diritto in questa trittico perché le sue idee di fondo sono come per gli altri due, a mio avviso, non pure e semplici ma distorte; non aderenti alla realtà fuori da loro stesse, ma solipsiste. 


L'idea da cui scaturisce una lingua è la volontà o il bisogno - o il desiderio, perché no? - di comunicare. Di comunicare non solo con gesti ma in modo più "intelligente", e "bello". In questo senso all'inizio la lingua fu presumibilmente un singolo suono comunicativo, cui nel tempo se ne aggiunsero altri, poi codificati. La pura e semplice idea era rispettata, le idee distorte non avevano spazio e forse lo avevano appena gli equivoci. Ma gli equivoci sono naturali, dato che le parole non hanno sempre un senso preciso e comunque il senso stesso è una cosa interpretabile o sfumabile. Ieri il mio confinante di Paradiso mi dice: io ti consiglio di chiamare un potatore per potare gli ulivi, che richiedono un taglio generoso. Vedrai che lui te li taglia con la motosega. Allora io rispondo: tu dici "generoso", ma io direi impietoso. Tagliarli con la motosega, intendo. Lui ribatte: "generoso" significa che tu devi fare dei bei tagli cogli occhi chiusi senza stare a cincischiare a togliere rametti quando invece c'è da togliere in abbondanza partendo dai rami primari.


Ed ecco qui l'equivoco, e, se vogliamo, una diversa interpretazione della parola generoso. Generoso significa, secondo il pratico Francesco, abbondante, copioso, senza risparmio, mentre per me la connotazione della parola è morale, in quanto io forse sono più morale di Francesco riguardo i miei ulivi, tant'è che solo l'idea di mozzarne le branche primarie mi disturba. Tuttavia, a riprova di quanto dico, il consiglio di Francesco l'ho seguito e il potatore l'ho chiamato, ma ho dovuto fermarlo all'ottava pianta da lui potata con la motosega, tanto non c'era rimasto niente di quei poveri ulivi così distrutti. Non voglio dire che la potatura in sé non sia valida né che il sig. Mario sia un distruttore, ma è proprio che mi offende moralmente arrecare tanto dolore agli alberi. Per circa quattro notti ho dormito rivoltandomi su me stesso. La mia contrizione era così seria che quando mi è salito il pianto agli occhi mi sono deciso a fermarlo e l'ho fatto senza mezzi termini spiegando a Mario che la sua potatura era "severa e io non volevo assumermi questa responsabilità di fronte a questi alberi (la cui sofferenza è ancora oggi nell’aria).” Quindi aggiungo: “Meglio che li sfoltisco io appena un po' per poi procedere ogni anno a uno sfoltimento che nel tempo porterà gli stessi risultati, ma non tutto insieme."


La lingua deve essere piana, scorrevole, altrimenti non solo si creano equivoci ma dei danni alla comunicazione, e alla mente stessa dei parlanti, i quali si infilano in una rete da cui difficilmente usciranno. I suddetti registi presi ad esempio stanno in quella rete, che è infine mentale, appunto, come una teoria che negli anni si ciba di se stessa e si intossica. C'è come una cattiva salute, una cattiva comunicazione in fondo alle loro speculazioni cinematografiche. Il mezzo stesso del cinema non riesce più a dire nulla se non i problemi dei propri registi, che non sono condivisibili con noi. La lingua del cinema rimane così in stallo, avvitandosi su se stessa e su problemi teorico-personali, che sono forse le stesse idee di fondo di questi films dall’aspetto conseguentemente cervellotico e pseudointellettuale.

Lars Von Trier è noto per porsi dei problemi teorici che egli non risolve né sviluppa ma che tortuosamente rimette al centro a ogni passo dei suoi film, e i passi non sono mai in avanti bensì sullo stesso punto. E ciò sarebbe anche accettabile, come ad esempio nel cinema dell’ermetico Antonioni, se i temi proposti fossero in qualche modo affrontati come aporie, nella loro inestricabilità oggettiva e dunque senza uno sviluppo perché le aporie non hanno sviluppo di per se stesse. Ma così non è perché nei film come Sulle onde del destino e La casa di Jack, solo per dirne due che coprono un ampio lasso di tempo artistico, c'è una trama, c'è un'apparente direzione, nonché famosi attori, ed anche una sceneggiatura tipica - a parte certi montaggi, certe inquadrature, certe associazioni di idee che sono lo stile autentico di Von trier e gliene diamo atto. Siamo quindi fuori dalla sperimentazione. Siamo in un contesto diverso, in cui tutti questi elementi non formano né uno sviluppo critico né una visione oggettiva sull'idea proposta. L'idea di fondo è imbrigliata nell'elucubrazione che nasce dal labirinto mentale del regista, il quale probabilmente non ha fatto sufficiente chiarezza dentro di sé ma si rovella nell'astrattezza, nel vago dei pensieri e delle intuizioni, che possono anche essere felici e interessanti, ma che non portano a un concetto, a una costruzione vera. Non ricordo il titolo ma c'è un film di Von trier in cui si vede un labirinto che è in realtà un simulacro di labirinto, ebbene questa è forse la forma, poverissima e frammentaria della stessa testa che ha prodotto quella cosa, e cioè del regista, che su quella cosa insiste per tutto il film con dispiego di attori, con teatralità e con bravura; ma noi sappiamo che tutti questi fattori non sono il centro né la sorgente di un film. Il centro di un film è l’idea, ripeto. Ogni prodotto artistico ha per centro un’idea. Una poesia, una scultura, un dipinto… tutti questi prodotti nascono da un’idea, sia pure un’emozione o un’intuizione, sia pure una idea semplicissima, come ad esempio “Mattina” per Ungaretti. Quel “m’illumino d’immenso” contiene una semplicissima e pura idea. Ma la poesia riesce solo se l’idea si sviluppa, altrimenti che cosa sarebbe la poesia? La poesia è lo sviluppo in poesia di un’idea, proprio come l’albero è lo sviluppo di un seme. I paralleli con la natura sono fin troppo semplici, ma anche la natura è una composizione di idee, volendo. La mattina di Ungaretti è un fatto naturale, in fondo. E’ un’idea naturale sviluppata in poesia.


Abbiamo detto che il cinema è una lingua. Questa lingua si divide in tanti segni proprio come le lingue tradizionali si dividono in vocali e consonanti, sostantivi, avverbi e via dicendo. Ma noi non siamo qui per parlare solo mediante avverbi o sostantivi, né potremmo mai comunicare senza coniugare i verbi. Potremmo dire "mangiare" e tutti capirebbero che abbiamo fame, ma non potremmo mai dire "ho già mangiato" oppure "loro stanno mangiando".


A proposito di avverbi . Ho ricevuto una lettera dell'ACEA che dice "Unitamente alla presente le inviamo..." Ormai gli avverbi sono diventati olofrastici, dominano, inglobano e intossicano la lingua come non mai. Forse sarebbe stato meglio dire "Insieme con la presente...", dove insieme avrebbe avuto tutto il sapore, la semplicità e la purezza di un parola originaria. E' immaginabile che la parola "insieme" sia stata creata per il bisogno di dire con un vocabolo solo "andiamo io e te" oppure "l'abbiamo fatto io e lei", il che toglie di mezzo tre parole con un colpo solo e rende dunque più fluido il linguaggio. Inoltre, "unitamente" indica l’unione, qualcosa di più intenso di un semplice allegato ad una lettera. Porta l'idea della compattezza. Non sto dicendo che non sia grammaticalmente corretto ma sposta il senso e il peso della frase, brucia il linguaggio e deprime la comunicazione.

Mentre dire come ho appena detto "grammaticalmente corretto" secondo me è rispettare l'avverbio e non distorcerlo o abusarne. Avrei potuto dire "sul piano grammaticale è corretto", ma non mi sarei allungato troppo inutilmente? Ecco che l'avverbio ci salva. Oggi neanche si usa più, a parte l'ACEA. Si preferisce dire "lui mi guarda duro" invece che "duramente". In questo caso l'errore ci sarebbe, se non fosse che anche l'uso ha il suo valore. L'uso, anzi, ha un valore immenso, spesso sottovalutato. Si tende ad aprire i dizionari per vedere se è più corretto dire così o cosà, e spesso per sminuire un bel modo di dire usuale.

Chi di noi infatti usa dire "è piovuto?". La maggioranza degli italiani usa dire "ha piovuto". L'uso detta la sua legge, non c'è santo! E uno come Pasolini lo sapeva bene, da linguista e poeta qual era. Dalla raccolta di poesia Trasumanar e organizzar riporto questi versi:


POUND:“Il tempo?»

DANIEL: «Buono, buono»

SINIAWSKY: «Ha piovuto molto fino a Pasqua, ma ora si è rimesso al bello»


Adesso vi faccio una domanda trabocchetto. Chi di voi si è accorto che ho scritto "insieme con" invece che "insieme a"? Ebbene, ambedue le forme sono corrette, ma qualche linguista afferma che la prima, provenendo dal latino, sarebbe più corretta. "Insieme" deriva dal latino in simul,  che si costruiva normalmente col cum (= con). Chi di voi usa la forma più corretta? Nessuno. Io mi accorgo che uso dire “insieme con” soprattutto quando scrivo, forse perché l'ho letta più che udita. E qui veniamo a un altro fatto singolare: la lingua italiana scritta e la lingua italiana parlata. Quasi impossibile distinguerle, eppure io credo siano due lingue diverse. La prova me la da proprio questo "insieme con", che sicuramente ho appreso dalla lettura, in quanto gli scrittori tendono a pulire la lingua. Ma io so benissimo, perché ne ho percezione piena, che quando parlo dico "insieme a". "Insieme a te", "insieme a noi"... e solo di rado mi sono ascoltato dire "vengo insieme con te". Del resto ditemi voi se è meglio la forma più corretta di quella meno corretta. "Insieme a te" è perfetto, è fluido, piano, limpido. Il "con" appesantisce la frase, la spezza. "Insieme a" sembrano invece una parola sola, dove la desinenza della prima può quasi fondersi con la congiunzione e sparire. Chissà se qualche poeta non abbia scritto addirittura "insiem'a te", magari per aggiustare un endecasillabo, o per rendere la frase più cantabile. Anche questi sono fattori che incidono. Diciamo che il purismo linguistico è stato uno dei peggiori nemici della lingua e dei suoi parlanti, e ancora lo sarebbe, se impedisse il parlare dal cuore, l’uso pratico. Ricordiamoci che prima di tutto viene la nostra umanità, poiché è stato l'uomo a creare la lingua, non la lingua a creare l'uomo. Ma come in tutte le cose ci vuole equilibrio. Il purismo è esecrabile, ma le regole sono importanti come i semafori. Senza le regole linguistiche l’impalcatura della lingua si perde e perfino il parlato si inquina, si imbruttisce, dato che la deriva di oggi è questa. La tecnologia non rispetta la lingua perché essa è antica, ma soprattutto perché scaturisce dall’uomo e non dalla macchina. La tecnologia presuppone il dominio della macchina sull’uomo, basta considerare gli ultimi eventi: dai cellulari, che sono ormai parte organica del corpo umano, a quel Boing737 recentemente precipitato per colpa del software del computer di bordo, il quale, avendo individuato un pericolo inesistente, e ha deciso al posto del comandante di perdere quota. Il pilota umano non ha potuto fare niente in quanto il destino dell’aereo era in mano al computer.





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