UN PROBLEMA ANCORA APERTO PER NOI LETTORI:
Evgenij Onegin
è di Aleksandr Puškin
o dei suoi traduttori?
strofa 1, capitolo XXXV:
la città che si sveglia al rullo del tamburo,
il fumo che sale dai camini in colonne blu,
il fornaio tedesco che s’affaccia, puntuale,
col suo cappellino di carta,
allo sportello della bottega,
la neve mattutina che scricchiola
sotto il passo sollecito della lattaia finnica.
Non sapremo mai abbastanza quanto lo stile metrico e ritmico sia sostanza della poesia. E’ il respiro per l’apneista. E anche quando il poeta stesso non se ne pone il problema, il lettore comunque ne è toccato, e di certo il traduttore deve porselo.
La strofa qui sopra è ripresa dall’Evgenij Onegin, un romanzo in versi lungo quasi 200 pagine, che riporto in minima parte nel proseguo di questo post.
L’Onegin sembra essere un vero e proprio testamento lirico di Puškin, ed anche se al primo approccio la lirica appare modesta, e addirittura comica, ecco che poi, continuando la lettura, essa si erge nel suo carattere di opera magna e immensa, una specie di Bibbia popolaresca e nobile dove ogni due versi incontriamo un panettiere, un postino, una sarta in magica alternanza con i più grandi dèi greci e romani. Ed è così che comprendiamo come anche i piccoli fatti quotidiani sono in realtà grandi, e come le più modeste personalità del popolo possono essere magnifiche (al di là di qualsiasi magnificazione poetica!).
Ma l’Onegin è anche un’opera edile eccezionale, dalla struttura classica perfetta. Classica ma anche moderna, se pensiamo alla materia metrica con cui è stata concepita e realizzata: tetrapodia è il suo nome. Solo in apparenza l’Onegin è “semplice”. La semplicità, se c’è, è solo un effetto del cuore, dell’umanità e della personalità del poeta che sceglie di esprimersi con parole comuni, non certo del metro assunto. Qualsiasi metro chiede ferrea disciplina, pure il cosiddetto verso libero, che è un anti-rimatore per eccellenza, un fluido liberatore e anche dissacratore. Infatti, se nel verso libero troviamo delle rime volontarie, fossero pure le più belle mai udite, ebbene queste devono essere motivate e ben allogate nella struttura metricamente liberata, altrimenti rappresentano un’anomalia, un difetto, e anche una cacofonia. Ma torniamo all’Onegin di Puskin: «La natura russa, l’anima russa, il carattere russo… la lingua russa si sono riflessi in Puskin con una purezza, e in una tale bellezza purificata come si riflette la campagna sulla superficie convessa di una lente.» (Gogol). «Poema non fantastico, ma palpabilmente reale, nel quale è incarnata la vera vita russa con una tale forza creativa e con una tale perfezione, quale non era esistita mai prima di Puskin, forse non è esistita neppure dopo di lui.» (Dostoevskij). Tradurre questa lingua di diamante è impresa da far impazzire di disperazione. (Vogüé). Ecco dunque affacciarsi il problema della traduzione.
Nel caso dello scrittore russo per il lettore italiano non c’è scampo, bisogna affidarsi mani e piedi al traduttore. Seppure ci fosse, il testo a fronte non avrebbe senso; quel testo a fronte che è così importante per un lettore vero, il quale ha sempre bisogno di basarsi sull’originale per comprendere la poesia.
Passiamo dunque alla traduzione di Gabbrielli.
Evgenij Onegin di Aleksandr Puskin
CAPITOLO PRIMO E a vivere s’affretta e a provare sensazioni. K. Vjàzemskij
I
“Quel sant’uomo di mio zio!
Guarda cosa ha escogitato
Per aver rispetto quando
Per davvero s’è ammalato.
Il suo esempio faccia scuola;
Ma, perdio, che noia stare
Giorno e notte a un capezzale,
Senza muoversi d’un passo!
E che bella ipocrisia
Coccolare un moribondo,
Rassettarlo sui guanciali,
Dargli farmaci e conforti,
Sospirando dentro sé:
Ma che il diavolo ti porti!”
II
Mentre vola, posta a posta,
La corriera nella polvere,
Questo pensa un rompicollo
Che il voler di Giove ha reso
Dei parenti unico erede.
– Permettete, cari amici
Di Ruslan e di Ludmilla,
Che senz’altro vi presenti
Qui l’eroe del mio romanzo:
È il mio buon amico Onegin,
Nato in riva alla Nevà,
Dove forse anche tu avesti
Vita e fama, o mio lettore.
Anch’io un tempo stavo là
– Ma a me nuoce il Settentrione.
Il poeta russo usa una metrica che noi italiani non conosciamo, la tetrapodia, appunto, ovvero dei versi di quattro piedi con accento sul secondo terminanti con una parola piana..
Emily Dickinson la usa, anche se personalizzata e con molte licenze (i suoi trattini separatori, per esempio), ma la sua tetrapodia spesso s’intervalla con una tripodia e con figure retoriche tra le più diverse, all’interno di una stupenda brachilogia.
Those looked that lived – that Day – —–: allitterazione
The Bell within the steeple wild
The flying tidings told –
How much can come ————— : tetrapodia
And much can go, ————— : tetrapodia
And yet abide the World!
(Emily Dickinson, There came a Wind like a Bugle)
Ma se posso leggere l’inglese di Emily Dickinson nella lingua originale, non posso altrettanto leggere il russo. Quindi mi affido ai lettori più sapienti di me, i quali mi dicono che il verso dell’Onegin corre, come la sua lattaia finnica. O perlomeno ciò si evince dai saggi compulsati durante il mio autodidatta studio su Puškin.
Non sarà grazie a questo metro “veloce” che il poeta riesce a stare così bene al passo dei fatti più fuggevoli della vita? Alla sostanza della quotidianità? E infine: non sarà per questo metro che l’Onegin sta nella letteratura mondiale come una delle opere meglio riuscite? Riuscire a cogliere in flagrante la vita è ovviamente anche merito del modello metrico con il suo ritmo, e pertanto la domanda che si pone è ancor più ovvia : come può il traduttore italiano rendere a noi lettori la tetrapodia dell’Onegin?
A questo punto andiamo a considerare alcune traduzioni, ma prima analizziamone gli assunti. La nostra forma metrica più simile sarebbe il novenario. Ed infatti la traduzione riportata qui sopra, del sig. Gabbrielli, è in novenari.
Il novenario è appropriato sia per quantità di sillabe sia per la parola piana finale come nella tetrapodia. Inoltre, nel novenario, se l’ultima parola è piana esso si forma con nove sillabe, mentre se è tronca o sdrucciola diventano dieci oppure otto, come nell’esempio qui sotto.
Da Pascoli:
Il | gior|no| fu | pie| no| di| lam| pi Ma| ora| ver|ran|no| le | stel |le
Il novenario però consta di tre accenti, cioè tre battute, quindi è musicalmente più lungo – ma ora… verranno… le stelle – , meno agile della tetrapodia, la quale permette ai lettori russi di arrivare con due salti, e non tre, alla fine del verso: Но, боже мой, какая скука Nella citazione da Pascoli vediamo che la parola “stelle” è sdrucciola, implica uno scivolamento. Ma siamo pur sempre nella poesia di Pascoli, sicuramente inferiore a quella di Puškin. Pensiamo solo al fatto che egli, uno dei nostri più grandi poeti dei primi del ‘900, viene ricordato per quella sua “cavallina storna” che in realtà è liricamente piuttosto pesante e dura nella sequenza di queste coppie di strofe-distici di undici sillabe (enedecasillabi) con rime baciate AA – BB .
“O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non ritorna;
tu capivi il suo cenno ed il suo detto! Egli ha lasciato un figlio giovinetto;
il primo d’otto tra miei figli e figlie; e la sua mano non toccò mai briglie.
Tu che ti senti ai fianchi l’uragano tu dai retta alla sua piccola mano
(…)
Strofe che voglio qui riportare perché nel parallelo comparativo con il grande poeta russo dei primi dell’800 esse si manifestano meglio. E dicono bene quale retorica sentimentale dominava in Italia a quel tempo. Retorica in cui cade tentenna e cade quasi del tutto la tragedia immensa che queste strofe rappresentano, ossia la cavallina che torna alla stalla senza il padre del poeta, ucciso mentre era sul calesse guidato proprio da questa cavalla quando Pascoli era bambino. Se allora non solleticavano il sorriso, per via di quella retorica, oggi non possiamo non sorridere leggendole. Sebbene quella retorica sia ancora oggi vivissima nella sua attuale restaurazione, nel revanchismo televisivo delle lacrime a pranzo e a cena, dei reality e delle fiction, degni sostituti delle telenovelas degli anni ’80 ma con al posto di “Andrea celeste” il mafioso e il vip che piangono in un carcere, su un’isola.
Pur rispettando il dolore del grande poeta italiano, beninteso, voglio solo dire che
Puskin, cent’anni prima di lui, viene ricordato ancora oggi dal popolo russo per i suoi poemi epici – come l’Onegin – e i suoi romanzi storici colmi di spirito e di allegria, nonché come fondatore della lingua letteraria russa.
” La nostra memoria serba sin dall’infanzia un nome allegro: Puškin “
Aleksandr Blok.
Ad animare i due poeti è un diverso spirito, che non possiamo mai paragonare con giustizia, ma anche lo scatto e l’energia del metro hanno il loro ruolo.
Ecco qui i versi originali dell’Onegin. In alto vediamo la scritta “Capitolo primo”, più in basso a destra l’esergo, e poi quella parte ditesto che ho riportato sopra tradotto in italiano.
ГЛАВА ПЕРВАЯ
И жить торопится и чувствовать спешит.
К. Вяземский.
I.
“Мой дядя самых честных правил, 4
Когда не в шутку занемог,
Он уважать себя заставил
И лучше выдумать не мог.
Его пример другим наука;
Но, боже мой, какая скука
С больным сидеть и день и ночь,
Не отходя ни шагу прочь!
Какое низкое коварство
Полу-живого забавлять,
Ему подушки поправлять,
Печально подносить лекарство,
Вздыхать и думать про себя:
Когда же чорт возьмет тебя!”
La tetrapodia distica o giambica di Puškin è per sua natura svelta come la poesia di Omero o Orazio, tanto per esemplificare, e il metro greco e latino dei grandi era spesso composto da sei, sette e talvolta otto posizioni metriche (che semplificando chiamiamo “sillabe”). Normalmente si tratta di esametro dattilici seguiti da un pentametro dattilico, e nelle satire oraziane, che per spirito potrebbero essere prese a modello traduttivo dell’Onegin, vi sono versi settenari e ottonari. A Mecenate Sangue di antichi re, tu Mecenate, sostegno e dolce vanto dei miei giorni: c’è chi gode ad alzare con il cocchio la polvere di Olimpia, ed evitando la meta con le ruote incandescenti, fa sua la palma che gli dà la gloria e lo innalza agli dèi, re della terra. traduzione: Maecenas atavis edite regibus, o et praesidium et dulce decus meum: sunt quos curriculo pulverem Olympicum collegisse iuvat metaque fervidis evitata rotis palmaque nobilis terrarum dominos evehit ad deos;
(tratto da I quattro libri delle odi Orazio)
Ma l’ottonario rende sette-otto sillabe contro le otto-nove della tetrapodia, per cui è impossibile mantenere fedelmente la struttura strofica, ossia rispettare i quattordici versi dei sonetti puskiani. E poi l’ottonario latino è un verso sinceramente sorpassato, antico, desueto, se vogliamo metterla sul piano della percezione moderna italiana.
Per non parlare della poesia duecentesca in senari, settenari, ottonari e novenari dei giullari, dei madrigalisti, dei goliardi e dei trovatori, coloro che sia nelle corti sia nelle strade componevano della poesia licenziosa e satirica; o anche religiosa e moralista come quella di alcuni monaci poeti. Dal Laudario di Cortona a moltri altri laudari ritrovati, dai Carmina burana a Jacopone da Todi ecc. ecc.
Chi vol lo mondo desprezzare [Novenario: 2-4-8]sempre la morte dea pensare. [Novenario: (1)-4-8]
La morte è fera e dura e forte, [Novenario: 2-4-6-8]rompe mura e spezza porte: [1-3-5-7]ella è sì comune sorte, [(1)-3-5-7]che verun ne pò campare. [3-5-7]
(dal Laudario di Cortona)
In terra summus rex est hoc tempore nummus (…) Nummo venalis favet ordo pontificalis. Nummus in abbatum cameris retinet dominatum.
traduzione:
Sulla terra domina regina assoluta la pecunia. C…) vende denaro
per favori l’ordine del clero. Nelle casse i prelati
conservano il loro beneamati.
(dai Carmina Burana traduzione mia)
Poi arriva Dante e surclassa questa metrica “bizantina” fatta di quaternari e senari in alternanze cantate. Dante non scrive per essere cantato ma per essere letto o recitato con forza intellettuale, gnomica, riflessiva. E stabilisce la tradizione dell’endecasillabo giocato in terzine. L’ottonario, tuttavia, è duro a morire, e tornerà in auge anche nel ‘900 grazie a Carducci e Pascoli. Ma non stiamo qui a fare la storia dell’ottonario, quanto invece a cercare una soluzione per tradurre la svelta tetrapodia, e perciò vagliamo diverse possibilità.
Questo è un famoso distico decasillabo del Manzoni. Il decasillabo è simile all’ottonario. S’ode| a |des|tra| uno |squil|lo| di | trom| ba a| si|nis|tra | ris|pon|de |uno| squil|lo Ma come potete notare, il decasillabo è strano, oltre che difficile per il traduttore in quanto frasi bene divisibili in dieci sillabe in italiano non si prestano, sono poche. Inoltre, parlando ritmicamente, non è ancora svelto come dev’essere.
Il problema della modernità e della tradizionalità del verso non è comunque scontato e il traduttore, che opera per l’editore ma anche per noi, deve porselo. Puškin non è Omero né Orazio, né Jacopone da Todi né un giullare, egli è nato nel 1799 ed è quasi contemporaneo della modernissima Emily Dickinson; modernissima non solo per ispirazione ma anche per libertà metrica, stile, invenzioni e licenze (vedi i trattini di congiunzione che non congiungono, i versi sbilenchi, le rime irregolari, etc.).
Ma il russo non è meno moderno, se a trent’anni d’età compone l’Onegin. Al colmo della sua giovinezza, esattamente nel 1830, quando Emily Dickinson nasce.
Dunque perché non ricorrere al verso libero per essere moderni?
No. Andremmo a discapito della struttura, e quindi della poesia nel suo respiro! Immaginiamo cosa diventerebbe questo edificio metrico così precisamente sonante per mezzo della tatrapodia, fatto di cadenze e rime.
Il primo nemico del verso libero non è la rima, ma la cadenza, la ritmicità regolare, ed è proprio questa ritmicità ad aver spinto Puškin nelle braccia della tatrapodia.
Puškin non è un poeta da verso libero, ma è sia moderno sia tradizionalista.
Secondo tradizione, però, i poeti italiani usano l’endecasillabo, anzi: dal dantesco 1300 in poi non hanno mai smesso e ancora oggi conosco chi lo usa volentieri o vorrebbe abbandonarlo ma proprio non riesce (come mi scrive in una email il poeta Davide Nota, che è nato nel 1981.)
Potrei aggiungere che l’endecasillabo riesce ad essere tradizionale e moderno come può darsi solo in un Paese archeologico, retrogrado, reazionario e refrattario al cambiamento come l’Italia di oggi.
E non possiamo tradurre la poesia epica di Puškin nella poesia epica di Dante.
Nel |mez|zo| del |cam|mìn |di |nos|tra |vi|ta
mi | ri|tro|vái | per| u|na | sel|va os|cú|ra
La lattaia finnica ne sarebbe inevitabilmente rallentata, lei che invece va spedita coi suoi stivali , nel cammin di sua vita , sulla scrocchiante neve russa.
Il latte fresco saebbe presto yogurt.
I versi di Puškin sono brevi, agili, e il traduttore deve stare attento, la forzatura in un metro di undici sillabe potrebbe rivelarsi un crimine. E noi lettori ne saremmo complici.
Lo Gatto (Napoli 1890-Roma 1983) nel 1925 traduce Evgenij Onegin in versi liberi. Fu forse la sua giovinezza (allora era trentenne come lo fu Puškin quando la scrisse), o fu Puškin stesso a consigliarlo in questo senso? Quella giovinezza che è naturalmente vicina alla freschezza e alla vitalità del testo – ma poi, in una successiva edizione, da buon italiano fedele alla tradizione nel senso retrogrado, egli usa l’endecasillabo (proprio l’endecasillabo!) : Di principi onestissimi, mio zio, or che giace ammalato per davvero, fa sì che lo rispetti infine anch’io; e non poteva aver miglior pensiero; esempio agli altri ed ammaestramento: ma quale noia, o Dio, quale tormento ad un infermo muoversi d’intorno, senza mai allontanarsi, e notte e giorno! Oh, quale ipocrisia, quale meschina perfidia divertire un moribondo, aggiustare i guanciali a un gemebondo, con faccia triste dar la medicina, sospirare e pensar fra sé: che guai! quando all’inferno dunque te n’andrai?
Lo Gatto, traduzione del 1937
La casa editrice Quodlibet, che oggi ristampa l’Onegin nella traduzione endecasillabica di Lo Gatto è tuttavia molto fiera nel presentare il suo libro :
“Questa che presentiamo è la più bella traduzione finora fatta in italiano. Ettore Lo Gatto ha raggiunto con essa quella leggerezza, musicalità e naturalità così vicina alla lingua parlata per cui è celebre Puškin. Il verso novenario giambico russo è restituito nell’endecasillabo regolare italiano, che è il verso più simile per capacità narrativa; ed è mantenuto lo stesso schema di rime dell’originale, cosa importantissima per godere il giro ritmico, la facile leggibilità e l’incanto del racconto.”
Questa è invece la traduzione (in prosa) di Bazzarelli, anno 1960 :
Mio zio, uomo dei più onesti principii, quando non per celia si
ammalò, seppe farsi rispettare, e non poteva avere una migliore
idea. Il suo esempio è insegnamento per gli altri; ma, Dio mio,
che noia starsene giorno e notte con un malato, senza
allontanarsi neppur d’un passo! E che bassa perfidia far
divertire uno che è mezzo morto, rassettargli i guanciali,
porgergli la medicina con volto triste, sospirare e pensare fra sé:
ma il diavolo quando ti porterà via?
E questa è la traduzione (in novenari ) di Giovanni Giudici, anno 1975 :
Mio zio così preciso e retto,
Or che sul serio s’è ammalato,
Si è fatto portare rispetto
E proprio il meglio ha escogitato!
Il suo esempio sia di lezione:
Ma, Dio mio, quale afflizione
Notte e dì un malato vegliare
Mai un passo potendo fare!
E quale perfidia meschina
Già mezzomorto vezzeggiarlo,
Sui cuscini accomodarlo,
Dargli mesto la medicina,
Sospirando e pensando fra te.
Ti porti il diavolo con sé!”
Come vi sembra infine la traduzione di Giudici? Lascio a voi lettori il giudizio. E spero che questa disamina servirà a qualcuno, oltre che al mio piacere di porre problemi.
Poetainazione
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